mercoledì 23 maggio 2018

La Corona va avanti

Il trigenerazionale all'interno della famiglia Windsor e nella serie "The Crown"


Per spiegarmi fino in fondo questo interesse mediatico per il Royal Wedding che lo scorso fine settimana ha inondato le pagine social di ciascuno di noi, ho ripensato a quanto sono rimasta agganciata alla prima stagione della serie "The Crown". Mi ci ero avvicinata tempo fa in maniera dubbiosa e circospetta, chiedendomi cosa mai ci fosse di interessante da raccontate su un personaggio apparentemente così noioso come la Regina d'Inghilterra.

Bene, mi sbagliavo. Certamente non è una serie da fuochi d'artificio o colpi di scena e fiato sul collo, ma è un buon prodotto che racconta un pezzo di storia contemporanea in maniera non noiosa e anche, a volte, colorita.
Gli sceneggiatori di serie, insomma, non finiscono mai di stupire.
Mi ha talmente incuriosito che ho
continuato a seguire su Netflix  documentario sui Windsor.

A livello sistemico c'è una cosa che mi ha molto colpito.
Noi parliamo di "trigenerazionale" riferendoci a quei fenomeni che, in una famiglia, si ripetono di generazione in generazione sebbene non vi siano, ad esempio a livello genetico, delle motivazioni perché ciò accada.
Questo lo spieghiamo sottolineando come la famiglia sia una realtà psichica che precede gli individui e agli individui sopravvive. Una famiglia è una organizzazione sociale che ha al proprio interno delle regole, una cultura, una struttura: l'analisi del trigenerazionale permette di vedere quanto, nel passare del tempo, certi schemi di comportamento vengano mantenuti, come segnale della difficoltà degli individui a svincolarsi dal sistema familiare di riferimento. Certi copioni funzionano infatti in maniera inconscia dentro di noi e continuano a ripetersi finché non li analizziamo e ne diventiamo consapevoli.
In terapia familiare, ad esempio, questo assunto teorico è alla base della tecnica del genogramma: uno strumento utile appunto a far emergere non solo la storia della famiglia, ma anche pattern di funzionamento e eventi che si ripetono, generazione dopo generazione.

Ora, se esistono famiglie che della rigida trasmissione dei copioni comportamentali ne fanno addirittura una regola, sono quelle reali, che per necessità storica e sociale rappresentano il non-cambiamento, la tradizione, la solidità del nome che si tramanda.
Anche con qualche artificio: quello dei Windsor infatti è un casato "inventato", preso a prestito dal nome del castello di famiglia nel 1917 quando, in piena prima guerra mondiale, essere la famiglia di origini tedesche Sassonia-Coburgo-Gotha non era proprio il massimo per farsi amare dal popolo inglese.

Giorgio V, nonno dell'attuale regina, è stato quindi il primo sovrano Windsor.
A lui è succeduto Edoardo VIII, conosciuto in famiglia come David, e passato alla storia per aver rinunciato alla corona nel 1936 per poter sposare Wallis Simpson, americana pluridivorziata che, proprio per questo passato niente affatto candido, non avrebbe mai potuto sedere accanto al Re di Inghilterra.

Dopo l'abdicazione di Edoardo VIII è quindi salito al trono Giorgio VI, padre di Elisabetta, che ha regnato dal 1936 fino alla morte nel 1952. Da allora, è cronaca.

Ragionando di trigenerazionale, la figura di Edoardo VIII è fondamentale nella casata dei Windsor: personaggio conosciuto e amatissimo dal popolo, la sua abdicazione mise molto a rischio la Corona, che dopo i cambiamenti politici in tutta Europa vedeva difficile un mantenimento della monarchia.
Riuscirci, mentre i sovrani di mezza Europa venivano detronizzati, e mantenerla fino ad oggi nonostante gli scandali e i cambiamenti sociali, è un grande successo dei Windsor.
Proprio Edoardo VIII mise in dubbio la centralità della Corona rispetto alla vita privata, creando nella storia familiare una specie di "trauma". Paura che si è tramandata ed ha avuto i suoi effetti: uno di questi si chiama Camilla Parker Bowles. Sappiamo dalle cronache che il Principe Carlo era innamoratissimo di lei, che lo ricambiava ma.. non era vergine. E seppure possa sembrare un'usanza medievale, lo spettro dello scandalo Wallis Simpson era talmente presente, talmente forte, che a Carlo fu impedito di sposare Camilla. Cosa fece Carlo, e come andò, lo sappiamo tutti: sposò Diana, figura che comunque portò un grande scandalo a Palazzo, e un grosso rischio per i Windsor.

Ora, l'innamoramento trigenerazionale per donne dal passato che oggi considereremmo normale, ma fino agli anni. '80 sembrava evidentemente scandaloso per l'aristocrazia inglese, colpisce molto. Colpisce ancor più lo scandalo trigenerazionale che ci sta sotto: pare che siano i matrimoni a mettere a rischio i Windsor, generazione dopo generazione.

Il trigenerazionale ci dice però che se a un certo punto il pattern familiare emerge e viene discusso, questo è già un punto per poter impedire conseguenze emotivamente faticose per gli individui. I singoli membri possono svincolarsi dal mandato familiare e cercare la propria strada, continuando ad appartenere alla famiglia.

E guardate un po': il Principe Harry che porta all'altare un'americana divorziata.
Tre generazioni fa, la stessa scena aveva portato ad un'abdicazione. Oggi è stata vista da 200.000 persone in diretta streaming.
Il trigenerazionale fa del mantenimento rigido di copioni una opzione per la sopravvivenza. Ma è un'illusione: i sistemi troppo rigidi non interagiscono con l'ambiente finendo per scomparire, e le famiglie sono sistemi.
Come diceva Darwin: non sono i più forti o i più intelligenti a sopravvivere, ma i più adattabili all'ambiente.
Ed Elisabetta, sul trono dal '52, deve averlo capito. Sabato, davanti alla nuova nipote americana, l'hanno pure vista un po' sorridere.

sabato 21 aprile 2018

I Russi e gli Americani

Il livello fenomenico e quello mitico nella coppia di "The Americans"


Caillè, nel suo articolo del 1981 Le varie carte come rappresentazione, definisce la relazione di coppia come un terreno nel quale convivono due livelli. Il primo è chiamato "fenomenico", riferito a ciò che realmente avviene in una coppia, ciò che due partner ci raccontano della loro vita e del loro problema.
Il secondo livello è definito "mitico", la "carta della relazione" che racconta delle aspettative e dei sogni di ciascun partner rispetto alla vita insieme. Un livello più profondo ed inconscio, che può essere portato in superficie dal lavoro terapeutico.

Il problema di una coppia, sebbene rappresentato a livello fenomenologico e riferito quindi ai problemi che i due incontrano nella vita quotidiana, affonda in realtà le proprie radici ad un livello più profondo, riconducibile al livello mitico, alle aspettative e sogni dei partner coinvolti nella relazione. Esistono più definizioni della relazione, a differenti livelli; definizioni che coesistono nella vita di coppia, e che messe insieme formano la concezione globale che abbiamo del rapporto.

Riassumendo forse troppo, per Caillé scopo di una terapia di coppia è aiutare a risolvere i problemi della vita quotidiana, i problemi del livello fenomenico, cercando di portare alla luce i nodi e i blocchi presenti a livello mitico. Per descriverlo in un'ottica narrativa, la terapia deve aiutare a far emergere storie alternative dalla realtà banale dominante quotidiana (Manfrida, 1996) che induce ciascun coniuge a recitare lo stesso copione senza poter trovare soluzioni per uscire dall'impasse relazionale.


Da qualche giorno ho terminato la visione di una serie che seguo da tempo, "The Americans" e alla fine dell'ultimo episodio ho pensato divertita cosa sarebbe successo se Elizabeth e Philip Jennings avessero chiesto una terapia di coppia. Il mio pensiero è andato subito al doppio livello di Caillè, ed ho pensato che effettivamente "The Americans" può essere un esempio, seppure metaforico e lontano dal mondo della clinica, di come un doppio livello mitico e fenomenico si intreccia in una relazione.
C'è il livello fenomenico, quello della vita quotidiana negli anni '80  di una coppia di americani middle class, proprietari di un'agenzia di viaggi, e dei loro due figli ben educati e molto americani che si dividono fra scuola, parrocchia e Commodore 64. Sono belli, hanno una bella casa e una bella macchina. A completare il quadro di una famiglia perfetta manca solo il Golden retriver in giardino.

Eppure questa coppia perfetta sembra sempre percorsa da una strana tensione, da una agitazione nervosa che rende i loro sorrisi troppo sorridenti, la loro felicità troppo felice. Ed ecco che possiamo cogliere la metafora del livello mitico, la risposta alla domanda "perché queste due persone si sono scelte?" nella descrizione del "dietro le quinte" dei coniugi Jennings. Philip e Elizabeth sono infatti in realtà due spie russe del KGB, addestrate per vivere come veri americani e aiutare la Russia nelle attività di spionaggio durante gli anni della guerra fredda. La loro vita non è altro che una ben strutturata ed articolata menzogna, una bugia continua che non può essere rivelata neanche ai loro stessi figli. La fissità della perfezione quotidiana di Philip e Elizabeth nasconde la fluidità di una coppia senza passato, due spie inizialmente unite più dal lavoro che dal sentimento. La forza della perfezione dei Jennings è però aderente alla perfezione del loro addestramento, e alla forza dei loro ideali. La fase del ciclo di vita che inizia con l'adolescenza della figlia mette in crisi la coppia e i loro ideali, e nel corso delle serie si assisterà all'emergere della dimensione mitica e al suo costante interferire nella dimensione fenomenica.

Insomma, per finire il gioco, seduta sul mio divano davanti alla tv ho chiesto a Philip e Elizabeth di rappresentare il loro problema con una scultura. Philip ha posizionato Elizabeth in cucina, intenta a preparare la cena parlando con la figlia, ed ha poi collocato se stesso sul divano insieme al figlio, a guardare la tv. Elizabeth ha rappresentato Philip intento a leggere un libro con aria pensierosa in soggiorno, mentre lei fuma in segreto affacciata alla finestra del bagno. Ho poi chiesto, nella seduta successiva, a Philip ed Elizabeth di descrivere il loro "Quadro del sogno". A ciascuno ho detto di immaginare una tela bianca e di dipingervi ciò che rende la loro coppia speciale, diversa da tutte le altre. Philip ha dipinto due orsi appena usciti dal letargo, che vivono in un bosco pieno di animali ma nessuno della loro specie, e che devono ogni giorno uscire dalla tana per procacciarsi il cibo. Elizabeth ha descritto una stanza regale, dove Philip è lo Zar e lei la Zarina, seduta accanto a lui su un divano di fronte ad un fuoco acceso, mentre fuori nevica e soffia il vento.

Per l'incrocio, e quindi per la fine della terapia, temo dovremo attendere la prossima stagione... 
Neanche per gioco mi piace fare spolier. 

lunedì 29 gennaio 2018

La scrittura del colloquio in psicoterapia

Recensione del libro "Scrivere un colloquio. La trascrizione clinica sintetica" di Luca Vallario. Luigi Guerriero Editore. 


Fino a che non ho conosciuto una amica che lavora come archivista in una grande biblioteca, avevo sempre pensato che lavorare nel mondo degli archivi fosse qualcosa di estremamente ripetitivo e noioso.
Lei mi ha invece aperto un mondo fatto di indici da inventare e scoprire, di storie che vanno consegnate alla storia con un processo serio, scientifico e al tempo stesso creativo.
Un po' ho pensato al lavoro dell'archivista quando ho letto il libro di Luca Vallario "Scrivere un colloquio. La trascrizione clinica sintetica".

È infatti di memoria e conservazione che si parla, facendolo però dal punto di vista terapeutico.
Nei primi capitoli del libro Vallario fa un excursus su tecniche e teorie sistemiche, dimostrando una conoscenza approfondita del nostro paradigma. 

L'immagine che apre il primo capitolo, molto suggestiva, del mestiere del terapeuta come zona di frontiera fra arte e scienza, come corpo calloso che unisce i due emisferi cerebrali, rende bene la fatica continua che fa il terapeuta, quella di portare a sintesi conoscenze e istinto, emozioni e ragione. Abbiamo le tecniche, abbiamo la creatività, ci mancano a volte strumenti per codificare, portare a sintesi e condividere ciò che succede nelle nostre stanze.

Nel secondo capitolo Vallario fa una disamina dell'aspetto più "emergente" del nostro lavoro: la parola. La suddivide in tre aspetti: quello del segnale, quella discrepanza che diventa verbo e che dobbiamo seguire come un segugio fino a riuscire a dare un senso al sintomo e alla storia; la parola poi come mezzo dell'azione terapeutica, e infine come obiettivo, come risultato di dare voce a una storia e una sofferenza.

Il terzo capitolo è dedicato invece a una disamina della scrittura in terapia: i suoi utilizzi, la sua utilità. Nei capitoli successivi, oltre a presentare lo strumento della scheda sintetica, ne dimostra l'applicazione attraverso esempi e casi clinici.

La competenza cognitiva di cui Vallario, attraverso tutto il libro, sottolinea l'importanza è la memoria. Perché è il ricordo il filo che lega e dà senso al nostro agire terapeutico.
Sottolineando la mancanza di strumenti che aiutino i terapeuti in questo esercizio mnestico, Vallario crea e condivide un protocollo, la trascrizione clinica sintetica, che può aiutare nel creare un patrimonio archivistico delle terapie. Un lavoro prezioso ed anche creativo.
E siccome è un libro sulla memoria, inizia ricordando a tutti i colleghi le specificità teoriche e tecniche dell'orientamento sistemico relazionale, a partire dagli assunti filosofici di base fino alle ultime novità pratiche. 

Trovo utile la lettura di un libro come quello di Luca Vallario perché il richiamo ad una metodologia seria aiuta la crescita del terapeuta, sia a livello individuale che come categoria globale. Inoltre, la condivisione di strumenti di report come la trascrizione clinica sintetica può avere un valore importante per esempio nell'ambito della ricerca. Non è infatti facile avere strumenti che permettano, al di là delle differenze teoriche ed individuali, di confrontare, e quindi valutare, il nostro lavoro.
Ma per fare questo, abbiamo bisogno di indici condivisi.
Non basta infatti l'istinto, la competenza, l'arte. Ci vuole anche del metodo. D'altronde, anche Pablo Picasso diceva che l'ispirazione esiste, ma deve trovarti al lavoro.

martedì 16 gennaio 2018

Connected. Un articolo su psicoterapia e nuove tecnologie

È uscito per Contemporary Family Therapy un articolo da me scritto insieme a Gianmarco Manfrida ed Erica Eisenberg su psicoterapia e nuove tecnologie.
È un articolo sul quale ci siamo impegnati molto, con l'intenzione di promuovere un approccio sistemico relazionale anche nell'utilizzo professionale di sms, mail, videochiamate e social network.
L'articolo è gratuitamente scaricabile a questo link