lunedì 28 gennaio 2013

Convegno SIPPR 2013

"Le risorse della psicoterapia relazionale: teorie, tecniche, condivisione, responsabilità, coraggio..."


E' stato pubblicato il programma del Convegno Internazionale della SIPPR Società Psicologia e Psicoterapia Relazionale che quest'anno sarà incentrato sul tema delle risorse della psicoterapia.
Il convegno si svolgerà a Prato dal 7 al 9 Marzo 2013.

Qui trovate informazioni e programma del Congresso.

giovedì 24 gennaio 2013

In medio stat virtus


Pubblicato da Cesvot il quaderno n°47 “La mediazione linguistico-culturale. Stato dell’arte e potenzialità” a cura di Valentina Albertini e Giulia Capitani


L’integrazione dei migranti è un obiettivo fondamentale nel lavoro messo in atto in molti contesti locali da cittadini, società civile e istituzioni.  Da anni le associazioni di volontariato sono chiamate a confrontarsi con il tema dell’immigrazione: inizialmente con funzione di progettazione e gestione di servizi di accoglienza, in seguito nella riflessione su inclusione sociale e diritti di cittadinanza degli immigrati. Credo che un Quaderno Cesvot sulla mediazione linguistico-culturale sia quindi utile al mondo del volontariato principalmente per due motivi.

In primo luogo perché la mediazione linguistico-culturale merita un’attenzione particolare, in quanto dispositivo di accoglienza per eccellenza, all’interno di una società che si fa sempre più escludente: non solo quindi per la sua “necessità”, più ancora che utilità, per gli operatori della scuola, della sanità, delle pubbliche amministrazioni, delle associazioni di volontariato, per gli utenti stranieri e italiani; ma anche per un suo ruolo ormai politico, di rappresentanza di istanze di inclusione e integrazione. L’immigrazione è un fatto, come lo è stata in tanti periodi storici e prendendo tante e diverse direzioni e forme: gli stranieri ci sono e continueranno ad arrivare, perché a questa continua mobilità spingono le congiunture economiche e politiche a livello globale. 


Continuare a garantire e implementare, nei nostri servizi territoriali, la presenza di mediatori e mediatrici linguistico-culturali che facilitino l’accesso ai servizi essenziali di queste persone in viaggio, è anche un modo per ribadire responsabilmente che alle sfide della contemporaneità rispondiamo cercando di attrezzarci con strumenti adeguati, e non voltando la testa dall’altra parte. All’interno di questo panorama mutevole, il volontariato è attore di cambiamento sociale e da anni supporta, e a volte sostituisce, i servizi nell’accoglienza dei migranti: in questo senso la mediazione linguistico-culturale si configura come un aiuto concreto al volontariato nel processo di apertura e comunicazione con i migranti quali nuovi cittadini, e un’opportunità per tutte le associazioni che da anni si impegnano in progetti di inclusione sociale.


Il secondo motivo che ci ha fatto ritenere importante l’elaborazione di una pubblicazione sulla mediazione linguistico-culturale rivolta al mondo delle associazioni riguarda l’attenzione crescente e l’importanza del coinvolgimento attivo dei migranti nelle attività di volontariato. Tale attenzione è dimostrata negli ultimi anni dalla nascita di campagne informative e di diffusione portate avanti dal volontariato e dirette al coinvolgimento di cittadini immigrati: portiamo come esempio, fra le altre attività, la campagna sulla donazione del sangue fatta dall’AVIS di Prato e interamente tradotta in cinese, oppure gli opuscoli multilingua sulla donazione promossi dalla Regione Toscana, dal Centro Regionale Sangue e dal Servizio Sanitario della Regione Toscana in collaborazione con Avis, Anpas Toscana, Croce Rossa Italiana, Fratres, Adisco e Cesvot.


 La mediazione linguistico-culturale può supportare in questo senso l’apertura di spazi di comunicazione e confronto per il coinvolgimento dei cittadini migranti nelle attività di volontariato, persone che partecipano e arricchiscono il mondo dell’associazionismo toscano: per confermare il ruolo del volontariato come creatore di nuove politiche, nuovi spazi e nuove opportunità di inclusione sociale. 
Vai al Quaderno Cesvot n°47 

lunedì 21 gennaio 2013

Guardie e ladri

Analisi di interviste a un gruppo di persone detenute sulla percezione delle relazioni con gli educatori penitenziari


Il lavoro che presento in questo post è un estratto della mia tesi di laurea che vede le sue origini nella ricerca che la  Fondazione Giovanni Michelucci ha svolto nel corso del 2004 all’interno degli Istituti di pena toscani, alla quale ho partecipato come ricercatrice.

I partecipanti alla ricerca sono stati 98, di cui 77 uomini e 21 donne, detenuti in 4 istituti penitenziari della Regione Toscana. Rispetto alla provenienza, il 50% delle persone intervistate proviene da un'altra regione, il 22% proviene dalla Toscana, il 27% è composto da cittadini extracomunitari e solo l’1% del campione proviene da un altro Paese della Comunità europea. Per quanto riguarda lo stato civile degli intervistati, il 47% dei soggetti è celibe/nubile, il 33% sposato, il 19% separato o divorziato, mentre l’1% è vedovo. Il 56% del campione totale ha figli.

L’intervista è di tipo semi-strutturato e le risposte sono state raccolte con il metodo carta-matita. Le domande aperte riguardanti le reti relazionali delle persone intervistate sono state analizzate con il supporto del programma per l’analisi qualitativa Atlas.TI. e le categorie ritenute significate  sono state raggruppate e strutturate secondo alberi di concetti successivamente analizzati. 

Nel corso delle interviste, ai detenuti è stato chiesto di descrivere le loro relazioni attuali, utilizzando aggettivi che ritenessero particolarmente rappresentativi, in particolare quelle con i compagni, gli educatori, la polizia penitenziaria, i volontari. Queste figure rappresentano infatti la maggior parte del mondo relazionale dei soggetti in stato di detenzione. Ipotizzando che un buon bilanciamento fra legami forti e legami deboli possa assicurare il benessere delle persone nelle normali condizioni di vita, pensare ad un reinserimento dei detenuti senza soffermarsi a riflettere sulle loro capacità di costruirsi o meno uno spazio di vita popolato da diverso figure e diversi ruoli, potrebbe portare a fenomeni di stigmatizzazione e ghettizzazione, facendo fallire qualsiasi tentativo di reinserimento sociale o lavorativo.

Analizzare le risposte relative alla percezione delle relazioni in un gruppo di persone detenute negli istituti toscani assume quindi un significato dal momento in cui si inizia a pensare che il tempo della detenzione non è qualcosa di ”vuoto” fra un “prima” vissuto all’esterno ed un “dopo” che inizierà con la fine della pena, ma che sia comunque uno spazio relazionale nel quale si muovono attori sociali e singole persone con le loro individualità: un tempo da riempire, ma soprattutto da sfruttare.

Le relazioni con gli educatori.

La figura dell’educatore penitenziario è quella che all’interno del sistema-carcere si trova più di ogni altra “fra l’incudine e il martello”, in quanto viene a scontrarsi quotidianamente con l’ambiguità di un ruolo preposto al reinserimento e alla risocializzazione dei detenuti in una struttura il cui mandato sociale è essenzialmente quello della segregazione-punizione. In un testo a cura di Giorgio Concato (1) sono raccolte testimonianze di educatori penitenziari che rimandano chiaramente ad una istituzionalizzazione del lavoro di questi operatori, sempre in debito numerico nel rapporto con i detenuti, e che con lo spostarsi all’esterno dell’opera trattamentale dei ristretti sentono premere su di sé una serie di aspettative e programmi sui quali sono sempre meno in grado di intervenire.

Per quanto riguarda i rapporti delle persone detenute con gli educatori, essi sono generalmente percepiti dagli intervistati più come negativi che positivi. L’educatore non è visto in generale come una figura che partecipa al processo di reinserimento del detenuto, ma una sorta di “ponte” con l’istituzione. Chiaramente, il numero impari fra detenuti e personale educativo fa sì che un rapporto fondato su richieste pratiche (compilazione moduli, richiesta permessi, contatti con l’esterno ecc..) non riesca a soddisfare gli uni e lasci un senso di frustrazione per l’incompletezza del lavoro  agli altri. C’è infatti da evidenziare come molte delle risposte, sia positive che negative, si riferiscono all’efficienza del ruolo dell’educatore, ossia se l’intervistato riesce o meno ad ottenere colloqui o benefici grazie al rapporto con gli operatori. 

Quello che inoltre sembra emergere dalle interviste è un’alta variabilità personale nella gestione dei rapporti, che fa supporre una mancanza di norme di comportamento condivise fra il personale. Nello studio di Corinne Rostaing (2) sulle relazioni sociali nelle carceri femminili francesi, si trova un’analisi interessante sui tipi di rapporti che si possono incontrare all’interno dell’istituzione totale e la loro variabilità secondo il modo di approcciarsi a tali relazioni che hanno i singoli attori in gioco.

detenuti
                          personale

Logica regolamentare
Logica missionaria
Partecipazione
Relazione normata
Relazione personalizzata
Rifiuto
Relazione conflittuale
Relazione negoziata

Secondo la Rostaing, la logica regolamentare si ha quando le persone privilegiano la missione o il lavoro che devono compiere tenendo in limitato conto il rapporto con i detenuti: applicazione del regolamento, mantenimento della disciplina e mantenimento di una rispettosa distanza con le persone sono gli elementi che contraddistinguono questo approccio. La logica missionaria si manifesta con un forte coinvolgimento nel lavoro, scambi con i detenuti anche a rischio di non rispettare scrupolosamente il regolamento. La Rostaing scrive che queste due logiche potrebbero rappresentare all’interno dell’istituzione i due compiti cui il  carcere è chiamato ad assolvere dalla società: quello securitario da un lato e quello basato sulla risocializzazione dall’altro.

Le lamentele raccolte nelle interviste per l’assenza delle figure degli educatori e i continui riferimenti a differenti trattamenti personali fanno supporre che, almeno nel caso dei partecipanti a questa ricerca, non sia particolarmente sentito il mandato sociale degli operatori “civili”, probabilmente perché l’istituzione in sé non offre né strumenti né un ambiente utile allo sviluppo di nuovi metodi di gestione dell’enorme carico di lavoro.

Un’osservazione che emerge dalle interviste riguarda una parziale differenza fra uomini e donne nella descrizione del rapporto con gli educatori. Le donne detenute hanno infatti fatto ricorso ad aggettivi che descrivono il loro rapporto con gli operatori maggiormente incentrati su aspetti emotivi rispetto ai detenuti uomini (“sincero”, “c’è affetto”, “come una famiglia” sono alcuni esempi), forse per il diverso modo di intendere la detenzione femminile, incentrata più su “modelli familiari” rispetto a quella maschile.
Anche la scarsità di colloqui con gli educatori è un tema ricorrente nelle interviste, letto come mancanza di attenzione alle proprie esigenze.

Un altro elemento da sottolineare è che le lamentele per la mancanza di attenzione ai propri bisogni non superano mai il limite della richiesta personale. Nel racconto di Zamperini (3) del  famoso studio di Zimbardo (1971) sulla “prigione simulata” di Stanford e sugli effetti che la divisione casuale di un campione di volontari in “guardie” e “detenuti” potesse avere nei rapporti reciproci, quando viene riportato il resoconto della visita dei familiari ai volontari “detenuti”, si legge:

“Pur protestando per quelle che apparivano regole arbitrarie e vessatorie, i familiari si adeguarono. Ora il dramma della prigione simulata includeva anche i parenti dei detenuti. Fra di essi qualcuno si agitò quando vide il figlio affaticato e angustiato. Ma la loro reazione si iscrisse nella prevista logica che governa un regime carcerario. Non portando infatti a niente di più che semplici richieste private indirizzate al direttore, affinché si prodigasse per concedere al figlio migliori condizioni di detenzione “

Nell’analisi dello stesso esperimento è riportato inoltre il riferimento alla totale mancanza di altruismo dei falsi detenuti, elemento indicato dagli studiosi come uno degli effetti dell’istituzionalizzazione e della progressiva cancellazione della soggettività dei reclusi.

Riassumendo,  la figura dell’educatore sembra essere quella alla quale si legano le maggiori aspettative, e quella alla quale sono rimandate tutte le necessità personali alle quali l’istituzione non è in grado di rispondere. Forse proprio per il suo ruolo, l’educatore è il pezzo che fa da ponte fra l’istituzione e la società all’esterno, e se è vero che umanamente si investe molto sulla sua persona, altrettanto vero è che diventa facile bersaglio di critiche al momento del non raggiungimento degli obiettivi prefissati.


[1]Concato, G. (a cura di), Educatori in carcere. Ruolo, percezione di sé e supervisione degli educatori penitenziari, Unicopli, Milano 2002
[2] Rostaing, C. La relation carcérale. Identités et  rapports sociaux dans les prisons de femmes, Presse Universitaire di France, Paris 1999
[3] Zamperini, A. Prigioni della mente. Relazioni di oppressione e resistenza, Piccola biblioteca Einaudi, Torino 2004


venerdì 18 gennaio 2013

Tutta un’altra storia

  Il modello delle Realtà Condivise come approccio narrativo alla psicoterapia

 

“Tutti i Figli dell’Uomo che sono venuti fra noi hanno appreso qualcosa che solo qui potevano apprendere e che li ha fatti tornare nel loro mondo profondamente mutati. Erano diventati dei veggenti perché ci avevano visto  nella nostra vera natura. Per questo potevano guardare il loro stesso mondo e il loro prossimo con occhi del tutto diversi. Là dove prima non vedevano che banali cose quotidiane, scoprivano di improvviso miracoli e misteri. Per questo venivano volentieri da noi in Fantàsia. E quanto più ricco e fiorente diventava il nostro mondo grazie a loro, tanto meno erano le menzogne nel loro mondo, e tanto più perfetto esso diventava.  Così come due mondi possono distruggersi a vicenda, allo stesso modo possono vicendevolmente risanarsi”. “Perché solo un nome nuovo può risanarti?” “Solo il nome giusto dà a tutte le cose e tutte le creature la loro realtà”, spiegò lei. “Il nome sbagliato rende tutto irreale. Questo è ciò che fa la menzogna”.

Michael Ende, La Storia Infinita


La realtà la costruiamo a parole. I sociologi Peter L. Berger e Thomas Luckmann, nel loro lavoro La realtà come costruzione sociale (1966), sostengono che la realtà non è qualcosa a priori, ma viene costruita come prodotto dell'attività umana, seguendo un processo dialettico. Definiamo chi siamo condividendo la quotidianità con chi abbiamo intorno, con le nostre relazioni significative. Questa realtà condivisa, che garantisce una certa stabilità alla nostra identità e rende la nostra vita più prevedibile, diventa però col tempo dominante: impedisce infatti a possibili identità alternative, nascoste nei sottomondi sociologici, di emergere e permetterci di “raccontarci” in modo diverso. Le persone tendono a confermare la realtà dominante, per un bisogno naturale di stabilità e prevedibilità del mondo. Ma cosa succede se quelli che ci vengono attribuiti sono ruoli rigidi e potenzialmente patogeni? Cosa succede se intorno a noi tutti iniziano a definirci come “il depresso”, “l’anoressica”, “il bordeline”?.

Capita spesso che le persone arrivino in terapia portandosi dietro un ricco carnet di diagnosi, ormai parte strutturante della propria identità: “dottore, io sono un bipolare!”. E più queste identità sono condivise e confermate, tanto più è difficile creare un cambiamento, andare a pescare nei sottomondi sociologici ipotesi alternative su ciò che siamo e sui perché siamo così.

Il Modello delle Realtà Condivise [1], sviluppato da Gianmarco Manfrida, partendo dai presupposti sociologici di Berger e Luckmann , si interroga proprio sul cambiamento terapeutico e su come un terapeuta possa aiutare il paziente a “ri-scrivere la propria vita” [2,3]. Dice Manfrida che nei racconti dei pazienti, sommerse in un mare di banalità confirmatorie, compaiono a tratti, spesso in modo incongruo, delle discrepanze, squarci di racconti alternativi provenienti dai sottomondi sociologici, sfere di dati e di significati anch’essi socialmente condivisi e confermati, ma minoritari e relegati nell’ ombra della consapevolezza. Scopo del lavoro terapeutico è proprio il recuperare questi pezzi di realtà nascosti e costruire insieme al paziente delle storie alternative, dei modi di raccontarsi che liberino dalle rigide identità patogene condivise e portate nella stanza di terapia.

Questo aiutare i pazienti a “riscrivere” le proprie storie è ciò che inserisce il sintomo all’interno di una rete di significato e rende il cambiamento terapeutico stabile: “il terapeuta si affianca al romanziere nel dare grande importanza a una piccola selezione ricavata dal complesso dei fatti, prendendo ciascun evento non solo per quello che vale in se stesso, ma anche per il significato che acquisisce in una prospettiva allargata”[4].

La metodologia narrativa è un orientamento relativamente recente all’interno del mondo della psicologia: osservando la storia della psicoterapia si può notare infatti che negli anni [5] l’enfasi si è gradualmente spostata dalla “verità storica” (che deve essere scoperta dal terapeuta) alla “verità narrativa” (che terapeuta e paziente costruiscono insieme). Uno sviluppo narrativo della terapia familiare ha permesso ai terapeuti di concentrarsi sugli effetti invece che sulle cause consentendo una maggiore fluidità delle narrazioni, cioè una loro evoluzione nel tempo, e di rivalutare le interazioni terapeutiche che diventano “esperienze” e non semplici raccolte di informazioni [6]. Anche secondo Ricoeur [7], l’approccio narrativo all’interno delle psicoterapie implica che il terapeuta costruisca delle storie alternative che ancora non sono state narrate: la vita è infatti un semplice fenomeno biologico finché non viene interpretata attraverso una narrazione. “Relazioni e contesto sono, quindi, gli ingredienti della nostra identità, la narrazione è la tecnica di cottura universale di noi terapeuti; utilizziamo poi altre sottotecniche speciali (strutturali, strategiche, paradossali, delle domande circolari, delle sculture) e una quantità enorme e variabile di strumenti affascinanti e utili” [8], ed ogni volta che entriamo nella stanza di terapia non possiamo esimerci dal narrare qualcosa: la narrazione è, de facto, parte integrante di qualsiasi terapia [9]. Il termine “narrativo” nella psicoterapia è utilizzato in due modalità diverse: la prima consiste nell’analisi del materiale terapeutico in termini narrativi; la seconda, , insiste invece sulla necessità di proporre interventi terapeutici che vengono chiamati, appunto “terapia narrativa”. Caillé sostiene che il racconto è un esempio di lavoro terapeutico in cui l’estetica della terapia (che si ritrova nella forma metaforica e spesso poetica del racconto) non è mai fine a se stessa ma si ricollega a un’etica: “e quest’etica consiste nella responsabilità del terapeuta di farsi garante di un processo in cui, contro ogni schema pedagogico o manipolativo, vengano attivate le risorse creative della famiglia, emergano altre possibilità di scelta” [10]. Non basta però una semplice narrazione affinché l’intervento sia realmente terapeutico. È necessario che le storie alternative che possono emergere con l’aiuto del terapeuta abbiano delle caratteristiche che le rendano capaci di produrre un cambiamento [1], e queste caratteristiche secondo il modello delle Realtà Condivise sviluppato da Manfrida sono la plausibilità, che consente di proporre il canovaccio della nuova storia e di definire il contratto che autorizza a lavorarci sopra; gli aspetti di persuasione, che permettono di rinforzare sul piano logico ma anche emotivo lo sviluppo della nuova storia; ed infine gli aspetti di validità estetica, utilizzati allo scopo di rendere il cambiamento appetibile e desiderabile.



Bibliografia di riferimento

[1] Manfrida, G., La narrazione psicoterapeutica. Invenzione, persuasione e tecniche retoriche in terapia relazionale, Franco Angeli Editore, Milano 1998


[2] White M., Re-Authoring Lives: Interviews and essays, Adelaide, Dulwich Centre Publications 1995

[3] White, M. La Terapia come narrazione, Casa Editrice Astrolabio, Roma, 1992

[4] Polster, E.  Ogni vita Merita un romanzo. Quando raccontarsi è terapia, Casa Editrice Astrolabio Roma, 1988

[5] Spence, D. Narrative truth and Theoretical truth, Psychoanalytic Quarterly; Volume 5, 1982

[6] Papadopoulos R. K.; Byng Hall J. Voci multiple. La narrazione nella psicoterapia sistemica familiare, Mondadori editore, Milano 1999

[7] Ricoeur P., Narrative Identity, in Wood D., Ricoeur, P., Narrative and interpretation, Routledge, London 1991

[8] Manfrida, G., L’Artusi, la nouvelle cuisine e la psicoterapia: conservazione, innovazione e mode in terapia relazionale, in Ecologia della Mente, Volume 32, Il pensiero Scientifico Editore, Roma 2009

[9] Zimmerman, J.L., Dickerson, V.C., Using a Narrative Metaphor: Implications for Theory and Clinical Practice, Family Process  Volume 33, June 2004

[10] Caillè P.,  Rey Y., C’era una volta. Il metodo narrativo in terapia sistemica. Franco Angeli, Milano 1998.

giovedì 17 gennaio 2013

Le Nuove Dipendenze. Analisi e pratiche di intervento.



Pubblicato il Quaderno Cesvot n°52 sul tema delle nuove dipendenze a cura di Valentina Albertini e Francesca Gori


Ciascuno di noi ha una propria immagine che associa alla parola “dipendenza”: ci possono venire in mente scene del film “Trainspotting”, qualche frase del libro “Noi, i ragazzi dello zoo di Berlino”, oppure immagini televisive che raccontano di marginalità e esclusione. L’immaginario collettivo sul tema della dipendenza è ricco e variegato, e fino a qualche anno fa quando si parlava di “dipendenze” ci si riferiva esclusivamente a comportamenti associati all'uso di sostanze.

Il termine “dipendenze” viene oggi sempre più associato all'aggettivo “nuovo”, per delineare alcuni comportamenti o abitudini, spesso legati a contesti socialmente accettati, dei quali non possiamo fare a meno: lo shopping, il gioco, la navigazione su internet, sono solo alcuni esempi, anche se molto significativi.  Le “nuove dipendenze”, non a caso chiamate anche “dipendenze sociali”, fanno riferimento a comportamenti comuni, spesso anche incentivati, che non presentano caratteristiche di illegalità o trasgressività: questo le rende ancora più “subdole” e spesso di difficile individuazione rispetto alle dipendenze da sostanze.  Gli alti costi sociali e sanitari che si stanno affrontando a causa dell’emergere di queste nuove tipologie di dipendenze hanno portato il tema all'attenzione di ricercatori, servizi e opinione pubblica, attivando una serie di progetti di prevenzione o intervento.


Vista la rilevanza dell’argomento e l’importanza di attivare progetti di prevenzione, soprattutto fra gli adolescenti, la Regione Toscana, sul bando “Contributi regionali per la promozione della cultura della legalità democratica (L.R. 11/99”) – Anno 2009, ha finanziato il progetto “Scommetti che t’impegni?” gestito da un partenariato di associazioni e scuole al quale ho partecipato come socia dell'associazione 89rosso. L’obiettivo generale del progetto svoltosi nell'anno scolastico 2009-2010, è stato quello di sensibilizzare giovani e adulti rispetto al tema delle vecchie e nuove dipendenze, stimolando l’impegno personale e sociale come promozione di una cultura responsabilizzante.
Questi obiettivi sono stati raggiungi attraverso lo sviluppo di una ricerca-azione e grazie a interventi educativi mirati all'interno delle scuole, favorendo un uso consapevole del denaro, del gioco e di internet e attivando interventi di prevenzione mirati. I risultati della ricerca azione, assieme a altri contributi teorici di rilievo, saranno pubblicati dal Cesvot all'interno del Quaderno n°52 "Le nuove dipendenze. Analisi e pratiche di intervento" curato da Valentina Albertini e Francesca Gori (Vai al Quaderno Cesvot)
Abbiamo ritenuto infatti fondamentale diffondere informazioni sul tema delle nuove dipendenze fra le associazioni di volontariato, in quanto spesso proprio il volontariato si trova a operare in contesti di presa in carico di persone che presentano problemi connessi a questo tema.

Vai al numero di Pluraliweb dedicato alle Nuove Dipendenze