Analisi di interviste a un gruppo di persone detenute sulla percezione delle relazioni con gli educatori penitenziari

I partecipanti alla ricerca sono
stati 98, di cui 77 uomini e 21 donne, detenuti in 4 istituti penitenziari
della Regione Toscana. Rispetto alla provenienza, il 50% delle persone
intervistate proviene da un'altra regione, il 22% proviene dalla Toscana, il
27% è composto da cittadini extracomunitari e solo l’1% del campione proviene
da un altro Paese della Comunità europea. Per quanto riguarda lo stato civile
degli intervistati, il 47% dei soggetti è celibe/nubile, il 33% sposato, il
19% separato o divorziato, mentre l’1% è vedovo. Il 56% del campione totale ha
figli.
L’intervista è di tipo semi-strutturato e le risposte sono state raccolte
con il metodo carta-matita. Le domande aperte riguardanti le reti relazionali
delle persone intervistate sono state analizzate con il supporto del programma
per l’analisi qualitativa Atlas.TI. e le categorie ritenute significate sono state raggruppate e strutturate secondo
alberi di concetti successivamente analizzati.
Nel corso delle interviste, ai
detenuti è stato chiesto di descrivere le loro relazioni attuali, utilizzando
aggettivi che ritenessero particolarmente rappresentativi, in particolare quelle
con i compagni, gli educatori, la polizia penitenziaria, i volontari. Queste
figure rappresentano infatti la maggior parte del mondo relazionale dei
soggetti in stato di detenzione. Ipotizzando che un buon bilanciamento fra
legami forti e legami deboli possa assicurare il benessere delle persone nelle
normali condizioni di vita, pensare ad un reinserimento dei detenuti senza
soffermarsi a riflettere sulle loro capacità di costruirsi o meno uno spazio di
vita popolato da diverso figure e diversi ruoli, potrebbe portare a fenomeni di
stigmatizzazione e ghettizzazione, facendo fallire qualsiasi tentativo di
reinserimento sociale o lavorativo.
Analizzare le risposte relative
alla percezione delle relazioni in un gruppo di persone detenute negli istituti
toscani assume quindi un significato dal momento in cui si inizia a pensare che
il tempo della detenzione non è qualcosa di ”vuoto” fra un “prima” vissuto
all’esterno ed un “dopo” che inizierà con la fine della pena, ma che sia
comunque uno spazio relazionale nel quale si muovono attori sociali e singole
persone con le loro individualità: un tempo da riempire, ma soprattutto da
sfruttare.
Le relazioni con gli educatori.
La figura dell’educatore
penitenziario è quella che all’interno del sistema-carcere si trova più di ogni
altra “fra l’incudine e il martello”, in quanto viene a scontrarsi
quotidianamente con l’ambiguità di un ruolo preposto al reinserimento e alla
risocializzazione dei detenuti in una struttura il cui mandato sociale è
essenzialmente quello della segregazione-punizione. In un testo a cura di
Giorgio Concato (1) sono raccolte testimonianze di educatori penitenziari che rimandano
chiaramente ad una istituzionalizzazione del lavoro di questi operatori, sempre
in debito numerico nel rapporto con i detenuti, e che con lo spostarsi
all’esterno dell’opera trattamentale dei ristretti sentono premere su di sé una
serie di aspettative e programmi sui quali sono sempre meno in grado di
intervenire.
Per quanto riguarda i rapporti
delle persone detenute con gli educatori, essi sono generalmente percepiti dagli
intervistati più come negativi che positivi. L’educatore non è visto in
generale come una figura che partecipa al processo di reinserimento del
detenuto, ma una sorta di “ponte” con l’istituzione. Chiaramente, il numero
impari fra detenuti e personale educativo fa sì che un rapporto fondato su
richieste pratiche (compilazione moduli, richiesta permessi, contatti con
l’esterno ecc..) non riesca a soddisfare gli uni e lasci un senso di
frustrazione per l’incompletezza del lavoro
agli altri. C’è infatti da evidenziare come molte delle risposte, sia
positive che negative, si riferiscono all’efficienza del ruolo dell’educatore,
ossia se l’intervistato riesce o meno ad ottenere colloqui o benefici grazie al
rapporto con gli operatori.
Quello che inoltre sembra emergere dalle interviste
è un’alta variabilità personale nella gestione dei rapporti, che fa supporre
una mancanza di norme di comportamento condivise fra il personale. Nello studio
di Corinne Rostaing (2) sulle relazioni sociali nelle carceri femminili
francesi, si trova un’analisi interessante sui tipi di rapporti che si possono
incontrare all’interno dell’istituzione totale e la loro variabilità secondo il
modo di approcciarsi a tali relazioni che hanno i singoli attori in gioco.
detenuti
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personale
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|
Logica regolamentare
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Logica missionaria
|
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Partecipazione
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Relazione normata
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Relazione personalizzata
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Rifiuto
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Relazione conflittuale
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Relazione negoziata
|
Secondo la Rostaing, la logica
regolamentare si ha quando le persone privilegiano la missione o il lavoro che
devono compiere tenendo in limitato conto il rapporto con i detenuti:
applicazione del regolamento, mantenimento della disciplina e mantenimento di
una rispettosa distanza con le persone sono gli elementi che contraddistinguono
questo approccio. La logica missionaria si manifesta con un forte
coinvolgimento nel lavoro, scambi con i detenuti anche a rischio di non
rispettare scrupolosamente il regolamento. La Rostaing scrive che queste due
logiche potrebbero rappresentare all’interno dell’istituzione i due compiti cui
il carcere è chiamato ad assolvere dalla
società: quello securitario da un lato e quello basato sulla risocializzazione
dall’altro.
Le lamentele raccolte
nelle interviste per l’assenza delle figure degli educatori e i continui
riferimenti a differenti trattamenti personali fanno supporre che, almeno nel
caso dei partecipanti a questa ricerca, non sia particolarmente sentito il
mandato sociale degli operatori “civili”, probabilmente perché l’istituzione in
sé non offre né strumenti né un ambiente utile allo sviluppo di nuovi metodi di
gestione dell’enorme carico di lavoro.
Un’osservazione che emerge dalle
interviste riguarda una parziale differenza fra uomini e donne nella
descrizione del rapporto con gli educatori. Le donne detenute hanno infatti
fatto ricorso ad aggettivi che descrivono il loro rapporto con gli operatori
maggiormente incentrati su aspetti emotivi rispetto ai detenuti uomini
(“sincero”, “c’è affetto”, “come una famiglia” sono alcuni esempi), forse per
il diverso modo di intendere la detenzione femminile, incentrata più su
“modelli familiari” rispetto a quella maschile.
Anche la scarsità di colloqui con
gli educatori è un tema ricorrente nelle interviste, letto come mancanza di
attenzione alle proprie esigenze.
Un altro elemento da sottolineare
è che le lamentele per la mancanza di attenzione ai propri bisogni non superano
mai il limite della richiesta personale. Nel racconto di Zamperini (3) del famoso studio di Zimbardo (1971) sulla
“prigione simulata” di Stanford e sugli effetti che la divisione casuale di un
campione di volontari in “guardie” e “detenuti” potesse avere nei rapporti
reciproci, quando viene riportato il resoconto della visita dei familiari ai
volontari “detenuti”, si legge:
“Pur protestando per quelle che
apparivano regole arbitrarie e vessatorie, i familiari si adeguarono. Ora il
dramma della prigione simulata includeva anche i parenti dei detenuti. Fra di
essi qualcuno si agitò quando vide il figlio affaticato e angustiato. Ma la
loro reazione si iscrisse nella prevista logica che governa un regime
carcerario. Non portando infatti a niente di più che semplici richieste private
indirizzate al direttore, affinché si prodigasse per concedere al figlio
migliori condizioni di detenzione “
Nell’analisi dello stesso
esperimento è riportato inoltre il riferimento alla totale mancanza di
altruismo dei falsi detenuti, elemento indicato dagli studiosi come uno degli
effetti dell’istituzionalizzazione e della progressiva cancellazione della
soggettività dei reclusi.
Riassumendo, la figura dell’educatore sembra essere quella
alla quale si legano le maggiori aspettative, e quella alla quale sono
rimandate tutte le necessità personali alle quali l’istituzione non è in grado
di rispondere. Forse proprio per il suo ruolo, l’educatore è il pezzo che fa da
ponte fra l’istituzione e la società all’esterno, e se è vero che umanamente si
investe molto sulla sua persona, altrettanto vero è che diventa facile
bersaglio di critiche al momento del non raggiungimento degli obiettivi
prefissati.
[1]Concato, G. (a cura di), Educatori in carcere. Ruolo, percezione di sé e supervisione degli educatori penitenziari, Unicopli, Milano 2002
[2] Rostaing, C. La relation carcérale. Identités et rapports sociaux dans les prisons de femmes, Presse Universitaire di France, Paris 1999
[3] Zamperini, A. Prigioni della mente. Relazioni di oppressione e resistenza, Piccola biblioteca Einaudi, Torino 2004
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