lunedì 21 gennaio 2013

Guardie e ladri

Analisi di interviste a un gruppo di persone detenute sulla percezione delle relazioni con gli educatori penitenziari


Il lavoro che presento in questo post è un estratto della mia tesi di laurea che vede le sue origini nella ricerca che la  Fondazione Giovanni Michelucci ha svolto nel corso del 2004 all’interno degli Istituti di pena toscani, alla quale ho partecipato come ricercatrice.

I partecipanti alla ricerca sono stati 98, di cui 77 uomini e 21 donne, detenuti in 4 istituti penitenziari della Regione Toscana. Rispetto alla provenienza, il 50% delle persone intervistate proviene da un'altra regione, il 22% proviene dalla Toscana, il 27% è composto da cittadini extracomunitari e solo l’1% del campione proviene da un altro Paese della Comunità europea. Per quanto riguarda lo stato civile degli intervistati, il 47% dei soggetti è celibe/nubile, il 33% sposato, il 19% separato o divorziato, mentre l’1% è vedovo. Il 56% del campione totale ha figli.

L’intervista è di tipo semi-strutturato e le risposte sono state raccolte con il metodo carta-matita. Le domande aperte riguardanti le reti relazionali delle persone intervistate sono state analizzate con il supporto del programma per l’analisi qualitativa Atlas.TI. e le categorie ritenute significate  sono state raggruppate e strutturate secondo alberi di concetti successivamente analizzati. 

Nel corso delle interviste, ai detenuti è stato chiesto di descrivere le loro relazioni attuali, utilizzando aggettivi che ritenessero particolarmente rappresentativi, in particolare quelle con i compagni, gli educatori, la polizia penitenziaria, i volontari. Queste figure rappresentano infatti la maggior parte del mondo relazionale dei soggetti in stato di detenzione. Ipotizzando che un buon bilanciamento fra legami forti e legami deboli possa assicurare il benessere delle persone nelle normali condizioni di vita, pensare ad un reinserimento dei detenuti senza soffermarsi a riflettere sulle loro capacità di costruirsi o meno uno spazio di vita popolato da diverso figure e diversi ruoli, potrebbe portare a fenomeni di stigmatizzazione e ghettizzazione, facendo fallire qualsiasi tentativo di reinserimento sociale o lavorativo.

Analizzare le risposte relative alla percezione delle relazioni in un gruppo di persone detenute negli istituti toscani assume quindi un significato dal momento in cui si inizia a pensare che il tempo della detenzione non è qualcosa di ”vuoto” fra un “prima” vissuto all’esterno ed un “dopo” che inizierà con la fine della pena, ma che sia comunque uno spazio relazionale nel quale si muovono attori sociali e singole persone con le loro individualità: un tempo da riempire, ma soprattutto da sfruttare.

Le relazioni con gli educatori.

La figura dell’educatore penitenziario è quella che all’interno del sistema-carcere si trova più di ogni altra “fra l’incudine e il martello”, in quanto viene a scontrarsi quotidianamente con l’ambiguità di un ruolo preposto al reinserimento e alla risocializzazione dei detenuti in una struttura il cui mandato sociale è essenzialmente quello della segregazione-punizione. In un testo a cura di Giorgio Concato (1) sono raccolte testimonianze di educatori penitenziari che rimandano chiaramente ad una istituzionalizzazione del lavoro di questi operatori, sempre in debito numerico nel rapporto con i detenuti, e che con lo spostarsi all’esterno dell’opera trattamentale dei ristretti sentono premere su di sé una serie di aspettative e programmi sui quali sono sempre meno in grado di intervenire.

Per quanto riguarda i rapporti delle persone detenute con gli educatori, essi sono generalmente percepiti dagli intervistati più come negativi che positivi. L’educatore non è visto in generale come una figura che partecipa al processo di reinserimento del detenuto, ma una sorta di “ponte” con l’istituzione. Chiaramente, il numero impari fra detenuti e personale educativo fa sì che un rapporto fondato su richieste pratiche (compilazione moduli, richiesta permessi, contatti con l’esterno ecc..) non riesca a soddisfare gli uni e lasci un senso di frustrazione per l’incompletezza del lavoro  agli altri. C’è infatti da evidenziare come molte delle risposte, sia positive che negative, si riferiscono all’efficienza del ruolo dell’educatore, ossia se l’intervistato riesce o meno ad ottenere colloqui o benefici grazie al rapporto con gli operatori. 

Quello che inoltre sembra emergere dalle interviste è un’alta variabilità personale nella gestione dei rapporti, che fa supporre una mancanza di norme di comportamento condivise fra il personale. Nello studio di Corinne Rostaing (2) sulle relazioni sociali nelle carceri femminili francesi, si trova un’analisi interessante sui tipi di rapporti che si possono incontrare all’interno dell’istituzione totale e la loro variabilità secondo il modo di approcciarsi a tali relazioni che hanno i singoli attori in gioco.

detenuti
                          personale

Logica regolamentare
Logica missionaria
Partecipazione
Relazione normata
Relazione personalizzata
Rifiuto
Relazione conflittuale
Relazione negoziata

Secondo la Rostaing, la logica regolamentare si ha quando le persone privilegiano la missione o il lavoro che devono compiere tenendo in limitato conto il rapporto con i detenuti: applicazione del regolamento, mantenimento della disciplina e mantenimento di una rispettosa distanza con le persone sono gli elementi che contraddistinguono questo approccio. La logica missionaria si manifesta con un forte coinvolgimento nel lavoro, scambi con i detenuti anche a rischio di non rispettare scrupolosamente il regolamento. La Rostaing scrive che queste due logiche potrebbero rappresentare all’interno dell’istituzione i due compiti cui il  carcere è chiamato ad assolvere dalla società: quello securitario da un lato e quello basato sulla risocializzazione dall’altro.

Le lamentele raccolte nelle interviste per l’assenza delle figure degli educatori e i continui riferimenti a differenti trattamenti personali fanno supporre che, almeno nel caso dei partecipanti a questa ricerca, non sia particolarmente sentito il mandato sociale degli operatori “civili”, probabilmente perché l’istituzione in sé non offre né strumenti né un ambiente utile allo sviluppo di nuovi metodi di gestione dell’enorme carico di lavoro.

Un’osservazione che emerge dalle interviste riguarda una parziale differenza fra uomini e donne nella descrizione del rapporto con gli educatori. Le donne detenute hanno infatti fatto ricorso ad aggettivi che descrivono il loro rapporto con gli operatori maggiormente incentrati su aspetti emotivi rispetto ai detenuti uomini (“sincero”, “c’è affetto”, “come una famiglia” sono alcuni esempi), forse per il diverso modo di intendere la detenzione femminile, incentrata più su “modelli familiari” rispetto a quella maschile.
Anche la scarsità di colloqui con gli educatori è un tema ricorrente nelle interviste, letto come mancanza di attenzione alle proprie esigenze.

Un altro elemento da sottolineare è che le lamentele per la mancanza di attenzione ai propri bisogni non superano mai il limite della richiesta personale. Nel racconto di Zamperini (3) del  famoso studio di Zimbardo (1971) sulla “prigione simulata” di Stanford e sugli effetti che la divisione casuale di un campione di volontari in “guardie” e “detenuti” potesse avere nei rapporti reciproci, quando viene riportato il resoconto della visita dei familiari ai volontari “detenuti”, si legge:

“Pur protestando per quelle che apparivano regole arbitrarie e vessatorie, i familiari si adeguarono. Ora il dramma della prigione simulata includeva anche i parenti dei detenuti. Fra di essi qualcuno si agitò quando vide il figlio affaticato e angustiato. Ma la loro reazione si iscrisse nella prevista logica che governa un regime carcerario. Non portando infatti a niente di più che semplici richieste private indirizzate al direttore, affinché si prodigasse per concedere al figlio migliori condizioni di detenzione “

Nell’analisi dello stesso esperimento è riportato inoltre il riferimento alla totale mancanza di altruismo dei falsi detenuti, elemento indicato dagli studiosi come uno degli effetti dell’istituzionalizzazione e della progressiva cancellazione della soggettività dei reclusi.

Riassumendo,  la figura dell’educatore sembra essere quella alla quale si legano le maggiori aspettative, e quella alla quale sono rimandate tutte le necessità personali alle quali l’istituzione non è in grado di rispondere. Forse proprio per il suo ruolo, l’educatore è il pezzo che fa da ponte fra l’istituzione e la società all’esterno, e se è vero che umanamente si investe molto sulla sua persona, altrettanto vero è che diventa facile bersaglio di critiche al momento del non raggiungimento degli obiettivi prefissati.


[1]Concato, G. (a cura di), Educatori in carcere. Ruolo, percezione di sé e supervisione degli educatori penitenziari, Unicopli, Milano 2002
[2] Rostaing, C. La relation carcérale. Identités et  rapports sociaux dans les prisons de femmes, Presse Universitaire di France, Paris 1999
[3] Zamperini, A. Prigioni della mente. Relazioni di oppressione e resistenza, Piccola biblioteca Einaudi, Torino 2004


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