martedì 25 giugno 2013

Fra il vecchio e il nuovo /3



Una breve definizione di "nuove dipendenze"


Per “new addictions” si intendono alcune nuove tipologie di dipendenze nelle quali non è implicato il coinvolgimento di sostanze chimiche, ma l’oggetto della dipendenza è un comportamento o un’attività lecita o socialmente accettata come lo shopping, il gioco d’azzardo, l’utilizzo di Internet, il lavoro, il sesso, le relazioni sentimentali.
Le nuove dipendenze, o dipendenze sociali (senza sostanza) si manifestano nell’urgente necessità di dover praticare un’attività, di dover mettere in atto un comportamento per trovare immediata soddisfazione ad un bisogno. Per questo, anche se non vi è assunzione di sostanze chimiche, il quadro fenomenologico è molto simile e, anzi, sembra essere per certi versi ancora più subdolo di quello delle dipendenze da sostanza. Se da una parte vengono messi in atto comportamenti che producono le stesse conseguenze delle cosiddette tossico-dipendenze, ossia l'escalation, la tolleranza e l'astinenza (dimostrando come il meccanismo psicologico delle dipendenze sia sempre lo stesso), dall'altra le dipendenze senza sostanza hanno a che fare con comportamenti, abitudini, usi del tutto legittimi e socialmente incentivati, basti pensare al consumo e all'uso di tecnologie informatiche o al fatto di fare shopping.
Si parla infatti di “dipendenze sociali”, come sottolineano Lavanco e Croce (2008):

perchè non si collocano nella dimensione della trasgressione, del vietato, del disapprovato, ma nascono e si costruiscono nella quotidianità perdendo quindi sia la dimensione del lecito e dell'illecito e con essa più facilmente anche quella del limite, tra “ciò che fa bene e ciò che fa male”.

Un altro aspetto rilevante è che appare difficile trovare elementi visibili di emarginazione e di rischio sociale nelle persone coinvolte in questo tipo di problemi, quali segnali premonitori o indicatori di disagio, di sofferenza. La possibilità di dipendenza sembra così una condizione di rischio sociale aperta ad ognuno di noi. Questo ci porta, quindi, a mettere in discussione anche molti degli elementi cardine legati alla prevenzione ed alla cura. E' infatti ancora possibile perseguire la logica dell'evitamento e dell'astinenza nel caso di questo tipo di dipendenze? Perchè se è certo che si possa vivere senza droghe, non è certo pensabile che oggi si possa vivere senza comprare, senza internet e così via. Basti pensare all’uso massiccio della pubblicità nei mezzi di comunicazione che incentiva all’acquisto, al gioco, al consumo, e alla grande utilità di internet.

Le forme di dipendenza sociale si rivelano così a-sociali nelle conseguenze e nei costi dovuti alla progressiva chiusura individuale, alla ripetizione coatta dei comportamenti di addiction, alle conseguenze sui piani familiare e lavorativo ed alla perdita di capitale sociale e di senso ed investimento nella comunità.
Come evidenzia bene Steiner (1993) le dipendenze, comprese quelle sociali, diventano “dei rifugi della mente, ovvero i luoghi mentali in cui ritirarsi quando si desidera sfuggire ad una realtà insostenibile perchè angosciosa” (Lavanco e Croce, 2008). 

Le nuove dipendenze sembrano l’espressione di una stagione culturale nella quale i fenomeni dell’abuso e della dipendenza appaiono contrassegnati più dal “buon funzionamento performativo” e dal bisogno di normalità che dall’immaginario della protesta, della marginalità o del disagio, legato all’uso e/o abuso di sostanze. L’uso di sostanze nella nostra società pare supportare la necessità di mantenere elevati livelli di vigilanza e di energia, come in una condizione stabile di ipomaniacalità, e di attutire così sentimenti di frustrazione, delusione, depressione, insoddisfazione che non si è più in grado di gestire (La Barbera, Sideli, 2008).
L’area delle nuove dipendenze rappresenta, quindi, un terreno di studio nel quale vengono a confluire aspetti di ordine sociale e culturale, insieme ad aspetti di ordine psicopatologico e clinico: un tentativo disfunzionale di dare risposta a specifici fattori evolutivi (Lavanco e Croce 2008).

mercoledì 5 giugno 2013

Mal-accetto


La Sclerosi Multipla e il lavoro psicologico


Si è appena conclusa al settimana durante la quale l’Aism, Associazione Italiana Sclerosi Multipla, ha organizzato a livello territoriale dei convegni informativi in occasione della Giornata Mondiale della Sclerosi Multipla (29 Maggio).

Durante questi giorni ho partecipato a diversi eventi organizzati dalle sezioni locali di Aism e la domanda che mi accompagna da quando lavoro con persone che hanno SM si è fatta ancora più presente.
La maggior parte dei pazienti che vengono a chiederci aiuto partono infatti da una richiesta, forse semplice a livello verbale, ma che nasconde tutta una serie di delicate sfumature e apre ad una serie di parentesi che rendono difficile dare una risposta.
Capita infatti che le persone con sclerosi chiedano “Come faccio a sapere se ho accettato questa malattia?”.  

La sclerosi multipla (SM), o sclerosi a placche, è una malattia autoimmune a decorso cronico della sostanza bianca del sistema nervoso centrale. Nella sclerosi multipla si verificano un danno e una perdita di mielina in più aree (da cui il nome «multipla») del sistema nervoso centrale. Queste aree di perdita di mielina sono di grandezza variabile e prendono il nome di placche. Alla base della SM dunque vi è un processo di demielinizzazione che determina danni o perdita della mielina e la formazione di lesioni (placche) che  possono evolvere da una fase infiammatoria iniziale a una fase cronica, in cui assumono caratteristiche simili a cicatrici, da cui deriva il termine «sclerosi».

Nel mondo, si contano circa 2,5-3 milioni di persone con SM, di cui 450.000 in Europa e circa 65.000 in Italia. La SM può esordire a ogni età della vita, ma è diagnosticata per lo più tra i 20 e i 40 anni e nelle donne, che risultano colpite in numero doppio rispetto agli uomini. La SM è complessa e imprevedibile, ma non riduce l’aspettativa di vita, infatti la vita media delle persone ammalate è paragonabile a quella della popolazione generale. (Fonte: sito www.aism.it)

Di fronte ad una diagnosi e alla successiva convivenza con una malattia così complessa le reazioni emotive possono essere molteplici. Il sito web dell’Aism segnala che le  principali problematiche di natura psicologica correlate con la SM sono i disturbi dell’umore, i disturbi d’ansia (frequenti nei pazienti neodiagnosticati), euforia e labilità emotiva. A queste si aggiungono conseguenze psicologiche molto più numerose e complicate, soprattutto se si tengono in conto gli aspetti relazionali: la diagnosi e la vita con sclerosi non sono infatti dimensioni vissute solo a livello individuale dal malato ma hanno profonde ripercussioni anche nelle persone della cerchia familiare.

Il tema di “accettare” la malattia è centrale nelle richieste di aiuto psicologico. Spesso tali richieste emergono dagli invianti, siano essi familiari o medici, oppure dai pazienti stessi.
Ma quando si accetta una malattia? Quando si può dire che qualcuno “ha accettato” l’idea che la propria vita dovrà cambiare, forse poco o forse tanto, che forse non potrà più essere in grado di fare quello che faceva prima, che le proprie relazioni probabilmente cambieranno e cambierà il modo di viverle?

Dare una risposta a una domanda così non è semplice, e nei momenti più speculativi mi domando anche quanto sia realmente necessario. Perché il percorso verso l’accettazione è una strada lunga e individuale, nella quale lo psicologo può essere un fondamentale sostegno terapeutico e forse, come nei viaggi più significativi, l’importante non è l’arrivo, ma il viaggio stesso.
Lavorando con persone con SM appare fondamentale il saper dare parole al forte dolore che accompagna ogni percorso di accettazione, percorso che non può esimersi dall’elaborazione del lutto connesso comunque a una “perdita”. Le persone con SM a volte “perdono” la capacità di fare cose come le facevano prima, perdono la possibilità di fare quello sport o quel lavoro, di andare in quel determinato posto o di fare quel tipo di vacanza. “Perdono” comunque un’idea che avevano di sé come persone “non-malate”.

Vengono spesso dati consigli psicologici come quello del focalizzarsi su ciò che si può continuare a fare senza pensare troppo a ciò che non si può fare più, oppure quelli di vivere il momento presente e godere del momento positivo quando arriva. Questo secondo me ha meno a che fare con il processo di accettazione. Perché focalizzarsi sul presente e su ciò che c’è di positivo è possibile, ma credo solo dopo aver esperito anche tutte le altre emozioni che inevitabilmente una diagnosi così terribile porta con sé: la rabbia, lo sgomento, la tristezza, l’ansia…
Alcuni malati riportano come esperienza il fatto che la loro vita, dopo la sclerosi, è in qualche modo migliorata, perché hanno imparato a godere di certi dettagli che prima sfuggivano, e apprezzare le piccole cose quotidiane. Io credo che un atteggiamento del genere possa essere un esempio di quella che chiamiamo “accettazione”, e credo  che questo possa avvenire solo dopo un lavoro di elaborazione del lutto e di sostengo delle capacità di resilienza del malato e della sua famiglia.  E parlo di resilienza non a caso: forse proprio per sottolineare la differenza fra una accettazione dove comunque la persona resta parte attiva e ri-organizza la propria vita e una rassegnazione, non per forza disincantata, ma comunque passiva.

Da parte di noi specialisti c’è secondo me da tenere ben presente che il percorso di accettazione non rappresenta un percorso univoco (Bonino*) ma che ogni paziente deve trovare una strada, per arrivare all’attribuzione di un significato personale all’esperienza della malattia. E, come ricorda Bonino, questo è un iter non fluido in cui ad ogni passo di può subire una battuta di arresto per poi ripartire, o a volte tornare indietro.
Ma questo viaggio dentro di sé e nel proprio modo di vivere la SM è l’unica condizione per riuscire ad accettarla: cioè a fare uno spazio alla malattia, non solo un terribile evento estraneo ma un cambiamento da inglobare dentro la propria vita.
Per far sì che il malato non si riduca alla malattia, rischiando così di rendere così la sclerosi l’unica cosa “multipla” della propria vita.

*Silvia Bonino - 2013 - Aspetti psicologici nella sclerosi multipla: dalla diagnosi alla gestione, Springer edizioni


Per maggiori informazioni sulla Sclerosi Multipla, visita ilsito dell’AISM