lunedì 11 dicembre 2017

Cicli, casi, spirali. Riflessioni sull'evoluzione del concetto di Ciclo di vita

La teoria del ciclo di vita della famiglia e dell'individuo nasce con gli studi di Jay Haley negli anni '70. Haley sosteneva che nel corso della vita ogni famiglia ha dei "compiti" evolutivi da svolgere per passare da una fase alla successiva: dalla coppia al matrimonio, dalla nascita dei figli alla crescita, dallo svincolo all'invecchiamento. Il passaggio da una fase alla successiva comporta grande stress per l'individuo e il sistema; proprio in questi "scalini evolutivi" possono quindi crearsi ostacoli che impediscono la crescita e lo sviluppo, portando alla comparsa di sintomi e difficoltà, sia personali che relazionali. L’uso del concetto del ”ciclo di vita”, molto frequente in psicoterapia sistemico-relazionale,  ha consentito fino ad oggi di rappresentare la vita delle persone scomponendola in alcune fasi essenziali, permettendoci di fare diagnosi e interventi a partire proprio dai compiti evolutivi del sistema, o dell'individuo, che chiede la terapia.

Da alcuni anni però sta emergendo una necessità di revisione delle fasi del ciclo di vita pensate da Haley. Queste erano infatti altamente coerenti con la società degli anni '60 e '70, e sono rimaste valide per i decenni successivi. Per un trentenne in quegli anni era infatti abbastanza scontato uscire di casa e trovare un lavoro, sposarsi, avere dei figli, andare in pensione a 60 anni... erano eventi più rari le crisi economiche, le perdite di lavoro, le precarietà, avere più matrimoni, le famiglie ricostituite.

A livello generale, negli ultimi venti anni i mutamenti socio economici hanno portato nuovi fattori di cambiamento dipendenti dalle differenti situazioni. I processi di trasformazione del nostro sistema sociale evidenziano oramai la difficoltà di utilizzare il concetto di ciclo di vita senza rivederne alcuni dei punti teorici di base. Bertin (2013) in una revisione della letteratura esistente, ci segnala l’opportunità di prendere in considerazione altri concetti, fra i quali quello di “corsi di vita”. Tale concetto sostituisce una visione lineare di sviluppo dell’esistenza con una per la quale i cambiamenti sociali che caratterizzano la vita delle persone sono da ricercarsi negli eventi e nelle esperienze che gli individui incontrano nel loro percorso. Questi eventi possono infatti ripresentarsi, e ricostruire le condizioni entro le quali si sono già realizzate le esperienze personali. I rischi, quindi, non sono più specifici delle singole fasi della vita, ma legati ad eventi critici che possono essere ricorsivi e ripresentarsi più volte lungo il corso della vita (ad esempio il quarantenne che perde il lavoro e torna a vivere con i genitori, dovendo ricontrattare spazi di convivenza e autonomia). Simile concetto è quello di “spirali di vita” sviluppato da Combrinck Graham (1985) che teorizza i cambiamenti degli individui come il prodotto delle connessioni tra la vita della persona e gli eventi spesso instabili del contesto sociale ed economico. In quest'ottica le dinamiche familiari presentano un processo a spirale nel quale i "momenti" che ne segnano i cambiamenti (la nascita della coppia, i figli, la loro uscita, la separazione..) si possono presentare più volte nella vita di una persona, implicando la costruzione di nuovi e differenti legami. Questo è un concetto che può essere molto utile in alcuni contesti terapeutici: immaginiamoci un nostro paziente di 50 anni separato con un figlio 25enne che ha appena avuto dei bambini; questo stesso cinquantenne è sposato in seconde nozze con una donna che lo ha reso di nuovo padre. Il nostro ipotetico paziente si trova quindi a vivere, contemporaneamente, due fasi differenti del ciclo di vita. Probabilmente questo racconto sarebbe stato eccezionale negli anni '70, ma nella contemporaneità situazioni come questa rappresentano una buona fetta di realtà, e un terapeuta sistemico relazionale deve farci i conti. Bertin sostiene che questi mutamenti rendono meno stabile la solidarietà intergenerazionale: se questo e vero, ne vedremo a breve gli effetti dentro le stanze di psicoterapia.

Al di là delle geometrie che decidiamo di utilizzare per descrivere le nostre storie, infatti, l'incrocio fra i cambiamenti dei macrosistemi e gli effetti sui microsostemi in cui viviamo possono essere luoghi di grande interesse sistemico, in ambito sia teorico che clinico.

Bertin, G. (2013). Welfare regionale in Italia. Politiche sociali: studi e ricerche.

COMBRINCK-GRAHAM, L. (1985), A Developmental Model for Family Systems. Family Process, 24: 139–150. doi:10.1111/j.1545-5300.1985.00139.x

domenica 17 settembre 2017

In purezza

Leggere "Purity" con uno sguardo alle relazioni familiari

Nel sistema economico di sua madre, lei era una banca troppo grande per poter fallire, 
un’impiegata troppo indispensabile per poter essere licenziata per cattiva condotta. 

Purity è un bellissimo romanzo di Jonathan Franzen, autore già apprezzato da tutto il mondo "psi" per i suoi altri titoli che avevano già ispirato riflessioni in molti terapeuti e psicologi. Ne "Le correzioni" infatti, i tre fratelli Lambert facevano i conti con uno svincolo impossibile e la conseguente, più o meno esplicita, depressione; in "Libertà" il figlio adolescente dei Berglund trovata terreno così poco fertile per svincolarsi, che sceglieva di andare a vivere dai vicini, giocandosi con una mano l'idea dell'essere lontani e a due passi.

Franzen sembra insomma affascinato e maledetto allo stesso tempo dal tema dell'invischiamento e delle difficoltà di svincolo. E dell'impossibilità di svincolarsi parla, in maniera magistrale, anche Purity.

Al di là del fatto che si dovrebbe leggere un libro come Purity anche solo per il piacere di trovarsi fra le mani un capolavoro come raramente se ne incontrano, uno psicoterapeuta può trovarci dentro un racconto di relazioni complicate fra genitori e figli, fra mogli e mariti, storie di costruzioni e di di rotture di rapporti, di padri e madri che un po' incasinano, e un po' salvano.

Il romanzo racconta le storie di molto protagonisti, e si allarga nel tempo e nello spazio, fra gli anni 70 e il presente, fra l'Europa e il continente americano.

E per chi fa il nostro mestiere, Purity è interessante per le geografie familiari che descrive. In primis, è un romanzo pieno di mamme. Mamme complicate, mamme narcisiste, mamme folli e mamme mancate.
C'è il rapporto di Purity con sua madre, che apre il romanzo descrivendo la quotidianità della pazzia, che agli occhi di chi ci condivide pranzo e cena sembra quasi una forma un po' strana di normalità.
C'è il rapporto fra Andreas e la madre, altra storia di sottile follia il cui disvelamento va di pari passo con la crescita del figlio. C'è Clelia, mamma di Tom, donna rigida che fa faticamene i conti con le proprie aspettative mancate e in un certo modo le proietta sul figlio.
Il padre nel romanzo è invece per la maggior parte periferico, quando non assente, comunque sempre ricercato: i padri del romanzo hanno in comune l'incapacità di proteggere i figli dalle forti aspettative materne.

Nello sviluppo del romanzo si vede tessere quella elegante tela che noi terapeuti conosciamo bene, che dice che solo chi scende a patti e accetta il proprio passato, e si separa in maniera sana dai propri genitori cresce, crea una vita adulta propria. C'è invece fra i protagonisti del romanzo chi non riesce, e soccombe, ricordandoci che gli obiettivi sociali sono sempre secondari rispetto a quelli personali individuali: non importa quanto successo riuscirai ad avere da grande, perchè se non ti svincoli sarà comunque difficile vivere nel mondo adulto.

Il libro parla di molte cose, ma se lo si guarda con un occhio psicologico parla principalmente di questo: delle relazioni primarie e di come condizionano le nostre relazioni future, e di quanto può essere difficile diventare veramente adulti se non abbiamo un sistema familiare in grado di sostenerci nella creazione di una identità propria, speciale e libera da eccessive aspettative e condizionamenti. Un sistema, insomma, che sappia guardarci senza condizionamenti, con Purezza.

Ritorno al futuro

Riflessioni sui nuovi orizzonti della psicoterapia sistemico relazionale

Abstract dell'intervento fatto al Convegno SIPPR il 7 e 8 maggio 2016 a Prato


 “Non rinchiuderti, partito, nelle tue stanze,
resta amico dei ragazzi di strada"
                               Vladimir Majakovskij


Interrogarsi sul tema dei nuovi orizzonti della psicoterapia sistemico relazionale è difficile: si rischiano pericolosi scivolamenti in tecnicismi che strizzano l’occhio alla modernità, o di riproporre, con differenti condimenti, qualcosa già visto, sentito, utilizzato. Eppure, sebbene anche Bertrando (1998) sottolinei che la differenziazione per tecniche, orientamenti e idee ha caratterizzato negli ultimi anni il mondo della psicoterapia sistemica e i sistemici sembrano molto capaci di procedere per invenzioni di tecniche, idee e “linguaggi esoterici” (Manfrida, 2009), non può essere il progresso tecnico che fa procedere un paradigma.
Diceva il pittore Castellani: "Io non credo alla tecnica come lievito per nuove idee, come provocatrice di cose nuove”[1]: ma se nel nostro paradigma non ci concentriamo sugli sviluppi tecnici,quali possono essere allora i nostri “nuovi orizzonti”?
Il paradigma sistemico relazionale ci insegna che non c’è futuro senza passato, senza una storia. I nuovi orizzonti quindi devono prendere spunto dalle radici più antiche, per recuperare ciò che ha reso l’approccio sistemico così speciale rispetto a tutti gli altri paradigmi. In questa sede ne citerò quattro, ai quali sono particolarmente affezionata. Ovviamente ce ne saranno molti altri, e anzi spero che molti altri stimoli seguiranno queste righe.

1. la lettura sistemica dei fenomeni
L’idea di relazione ci permette di guardare al contesto come un sistema più ampio di quello interpersonale. Il ricorso alle tecniche di cui parlavamo appartiene ad un intervento a livello di microsistema, ma questo NON E’ l’unico intervento che un sistemico può fare, anche se a volte sembriamo essercene dimenticati, restando chiusi al calduccio dei nostri studi. Occorre recuperare la ricchezza della complessità dei sistemi ricordandoci che “occuparsi solo di famiglia è arbitrario e […] i sistemi umani in cui ci muoviamo sono virtualmente infiniti” (Bertrando Toffanetti 2000).
Il paradigma sistemico relazionale ha in sé la capacità di leggere sintomi e comportamenti anche all’interno di una visione di comunità e società più ampia, che oggi come ieri ha bisogno di una lettura sistemica dei propri fenomeni; d’altronde  “Applicare al piccolo gruppo spontaneo […] i principi di intervento mediati dalla utilizzazione del metodo relazionale porta ad una sorta di saldatura […] fra le linee proprie della prassi socio-politica (livello dei grandi gruppi) e quelle proprie della prassi interpersonale (livello dei piccoli gruppi) in cui più direttamente si determina la richiesta di aiuto psichiatrico (Cancrini, Malagoli Togliatti, 1976).
Agire quindi solo su un aspetto della vita delle persone può essere necessario all’interno della stanza di terapia, purché non si perda di vista che è il sistema, inteso come famiglia, ma anche come sistema comunitario e sociale di appartenenza, che sul singolo individuo interviene e agisce: infatti “il cambiamento sociale comincia con un incontro a due” (Robine 2012)

2. il dibattito politico sulla “riscrittura” del welfare
I cambiamenti socioeconomici e il passaggio alla postmodernità sono accompagnati dall’insorgenza di nuovi fattori di rischio e di disagio, non universali ma dipendenti dalle singole situazioni sociali. Questo, unito alla crisi economica in atto e alle linee politiche promosse, porta una necessaria riscrittura dei sistemi di welfare. Ma se chi si occupa di politiche sociosanitarie ha più attenzione per il portafoglio che per i diritti, “il paradigma relazionale è ciò di cui le scienze sociali hanno bisogno per riuscire a distinguere che cosa c'è di umano nel sociale, e che cosa invece lo fa diventare dis-umano o non-umano”: i sistemici possono collaborare con i sociologi e i politologi perché “l’approccio relazionale apre nuovi orizzonti, teorici ed operativi, in quanto mostra il lato invisibile, e però reale, di ciò che allo stesso tempo tiene legati e rende conflittuali fra loro gli esseri umani quando vivono assieme” (Donati, Colozzi 2006).

3: il valore preventivo dell’intervento sistemico
Come detto, il tema economico è fondamentale per improntare qualsiasi intervento: e a chi sottolinea il costo della psicoterapia, dovremmo prontamente rispondere quanto costi il NON fare psicoterapia. A livello politico, l’ottica sistemica può apportare nei  tavoli appropriati il valore umano, etico, sociale della terapia, nonché il suo potere economico (ad esempio, lo studio della London School of Economics sull’incidenza economica della psicoterapia).
Per far questo, è necessario strutturare un nuovo lavoro politico che metta in rete i sistemico relazionali non solo con il mondo della salute mentale, ma anche con associazioni e enti di terzo settore, assessorati, cattedre universitarie (sociologia, scienze della formazione, psicologia comunità e sociale, organizzazioni, ma anche economia ecc..)

4: la visione della malattia mentale
Forse la “battaglia per i marchi registrati” (Framo 1996) che tanto ha contribuito alla balcanizzazione delle scuole ci ha fatto perdere di vista ciò che è alla base del paradigma: le teorie, e anche un’idea condivisa di salute mentale, relazionale e di comunità. Eppure c’è poco spazio per un dibattito sulla salute mentale e sulla prevenzione del disagio psichico: si ampliano le aree diagnostiche, aumenta il consumo di psicofarmaci, vengono promosse psicoterapie “superfast”, la prevenzione sembra un costo in eccesso da tagliare dai bilanci.
Ma “Se cinquant’anni fa si lottava per andare contro l’establishment psichiatrico e cercare altre strade oltre a quella del controllo e della contenzione, oggi, tra post-modernismo e politically correctness, assistiamo a un silenzio tombale su tutto il fronte, perché se la critica non viene dall’interno di chi cavalca il modello medico ad oltranza, non arriva neppure dal mondo psicologico e delle altre discipline sociali”.[2](Andolfi, 2014).
Forse in un lavoro condiviso di società sistemica potremmo trovare la forza di rispondere a questa idea di prevenzione che si sta diffondendo e che sta promuovendo un’idea di salute mentale “da banco”.

Sebbene sia difficile ridurre in poche righe gli apporti del paradigma relazionale alla società contemporanea, e più difficile ancora sia concludere una riflessione che nell’intento vorrebbe restare aperta, credo che alcuni cambiamenti in questa direzione siano necessari se vogliamo che il paradigma sopravviva e si distingua da altri orientamenti. Vale quindi la pena che all’interno dei nostri training e nei nostri studi si recuperi una lettura sistemica della società, i cui cambiamenti hanno un impatto sicuramente importante per chi come noi si occupa di salute.
I nuovi orizzonti sono a mio parere questo: il recupero delle radici che hanno unito i relazionali, piuttosto che un’analisi delle tecniche e delle impostazioni che negli anni li hanno separati.
D’altronde, se di origini comuni vogliamo parlare, già Freud apriva la riflessione verso un’ottica sociale e collettiva: ”La contrapposizione fra psicologia individuale e psicologia sociale o delle masse, contrapposizione che a prima vista può sembrarci molto importante, perde, a una considerazione più attenta, gran parte della sua nettezza. [..] Nella vita psichica del singolo l’altro è regolarmente presente come modello, come oggetto, come soccorritore, come nemico, e pertanto, in questa accezione più ampia ma indiscutibilmente legittima, la psicologia individuale è anche, fin dall’inizio, psicologia sociale” (Freud, 1921).

Bibliografia di riferimento

Andolfi M., Psicofarmaci, Dsm-V e psicoterapia familiare, Il Corriere 30 Novembre 2014 http://www.corriere.it/salute/neuroscienze/14_novembre_28/terapia-familiare-1dbeb5b2-772c-11e4-90d4-0eff89180b47.shtml
Betrando P., Toffanetti D. (2000) Storia della terapia familiare. Raffaello Cortina Editore. Milano
Bertrando  P. (1998) Testo e contesto. Narrativa, postmoderno e cibernetica. Rivista Connessioni, 4, 1998
Cancrini L., Malagoli Togliatti M. (1976) Psichiatria e rapporti sociali. Editori Riuniti, Roma.
Framo, J. L. (1996), A personal retrospective of the damily therapy field: then and now. Journal of Marital and Family Therapy, 22: 289–316. doi:10.1111/j.1752-0606.1996.tb00207.x
Freud S. (1921) Psicologia delle masse ed analisi dell’io, Edizione Bollati Boringhieri 1975, Torino
Manfrida G. (2009) L’Artusi, la nouvelle cuisine e la psicoterapia: conservazione, innovazione e mode in terapia relazionale. Ecologia della Mente, Il pensiero scientifico Editore, Roma
Donati P., Colozzi I. (2006) Il paradigma relazionale nelle scienze sociali: le prospettive sociologiche,  Il Mulino, Bologna
Robine J.M., (2012) Social change Begins with two. Gestalt Therapy Book Series, Siracusa



[1] Enrico Castellani, in "Autoritratto" di Carla Lonzi, corsivo mio

lunedì 14 agosto 2017

"Noi non siamo razzisti ma"


Riflessioni psicologiche su accoglienza, razzismo, stereotipi e solidarietà

In un bellissimo libro del 2001, "Psicologia dell'inerzia e della solidarietà", lo psicologo Adriano Zamperini scriveva: "la solidarietà all'interno di un gruppo sembra implicare la solidarietà contro gli outsider.  La solidarietà è costituita da legami. Si tratta, almeno in parte, di legami di gruppo definiti in termini di nazionalità, etnia, comunità e varie altre forme. Quali sono le differenze che conseguono dal fatto che un individuo è nel mio gruppo, contrapposto ad un altro gruppo?".

Riflessioni sul tema della solidarietà divergono oggi molti calzanti, 
La duplice questione che credo conosciamo tutti riguarda da un lato l'atteggiamento politico dilagante sull'"aiutiamoli a casa loro", dall'altro le recenti accuse alle Ong che contribuiscono ai salvataggi in mare dei migranti di essere se non conniventi, almeno vicini all'attività degli scafisti. 
Questo tipo di comunicazione, avvallata da molti, è assai grave e colpisce particolarmente perché si va a toccare, criticare e denigrare, l'area della solidarietà e dell'aiuto umanitario, atteggiamento nuovo e pericoloso per lo sdoganamento di temi e significati che può portare.

Che senso ha, a livello psicologico, attaccare la solidarietà? E quale senso collettivo negare aiuto e accoglienza perché "non possiamo permetterci di salvare vite"?

Tralasciando le questioni specifiche che rendono il tema migrazione un punto fondamentale per le agende politiche moderne (spesso il punto sul quale si può perdere o vincere le elezioni) ciò che colpisce dal punto di vista psicologico sono l'estremo ricorso a un pensiero categorizzante da un lato, e il sentimento di minaccia e aggressività collettiva che si respira su questi temi dall'altro. Su questo entrano in gioco sicuramente  molte variabili, qui ne vorrei prendere in considerazione tre.

1. La categorizzazione sociale, cioè il processo che sta alla base della creazione di stereotipi con i quali attribuiamo caratteristiche comuni a tutti gli individui che fanno parte di un gruppo.
Quelli di Henry Tajfel sono fra gli studi più importanti della psicologia sociale, perché hanno fornito spiegazioni fondamentali su come ci comportiamo quando siamo in un gruppo: ad esempio, tendiamo ad attribuire all'ingroup tutte le caratteristiche positive, mentre quelle negative le mettiamo addosso all'outgroup ("sono brutti, puzzano, sono maleducati" ecc). Se abbiamo delle risorse da suddividere, preferiamo sbilanciarci a favore dell'ingroup. Pensiamo l'outgroup composto da persone più o meno tutte uguali.

C'è da dire che la categorizzazione sociale funziona "di gruppo in gruppo", non è fissa: questo fenomeno psichico dà ragione al ritornello "io contro di te, io e te contro mio fratello, io te e mio fratello contro mio cugino, noi contro il vicino" e così via. Ad oggi, sembra che funzioni bene questo messaggio di "noi italiani" contro i migranti, perché il migrante è un outgroup sufficientemente indefinito, ma allo stesso tempo conosciuto, è "l'uomo nero" che ruba le risorse (i bambini, il lavoro, le case popolari..). 
Anche senza volerlo, in questa divisione fra "noi" e "loro", entriamo dentro a questa macrocategorizzazione che ci fa semplificare il problema "migrazione" fino all'osso fino a che il problema non esiste più e ci sono solo "loro" e la loro "invasione".

2. Il "razzismo del bianco povero". Sempre in termini di risorse, è stato dimostrato che è la prossimità psicologica dell'outgropu che fa aumentare fenomeni di razzismo. Le differenze sono quindi quasi sempre su base sociale, non culturale. Se Barack Obama chiedesse asilo politico qui da noi, nessuno direbbe "oh no, adesso Barack Obama viene a rubarci il lavoro!" perché percepiamo Obama molto distante da noi in termini sociali. 
Per quanto possa sembrare "retrò", il razzismo è quindi anche una questione classista. 
Scriveva Robert Castel "il risentimento, in quanto risposta sociale al malessere sociale, si indirizza verso i gruppi più vicini" ad opera di persone esse stesse deprivate e in concorrenza con altri gruppi.
La deprivazione relativa è quella teoria di psicologia sociale che spiega come gli individui diventano scontenti e aggressivi quando percepiscono l'esistenza di una discrepanza fra lo standard di vita di cui godono e quello di cui credono di dovere godere: tradotto nella nostra realtà, la vita precrisi ha abituato la popolazione a standard medio alti che dopo la crisi non sono stati più accessibili, causando un senso collettivo di deprivazione e frustrazione, che più facilmente trova il suo capro espiatorio nelle fasce migranti, nei poveri, nelle fasce più deboli della popolazione mondiale.
Al perché questo malcontento si indirizzi verso i più prossimi, piuttosto che verso i più ricchi, o verso i responsabili della deprivazione, la psicologia sociale non ha dato ancora risposta certa.

3. Frustrazione e aggressività.
Sppiamo che il conflitto fra gruppi è tanto più probabile quanto più alta è la frustrazione che consegue alla deprivazione. La frustrazione, di per sé, non è sufficiente a sfociare in aggressività, ma associata ad altri elementi negativi (uno stato collettivo di disagio, un clima d'odio generalizzato, la mancanza di politiche sociali..) è probabile che si esprima attraverso rabbia e aggressioni. Questo in parte può spiegare la rabbia e "l'oceano borderline" dilagante a livello sociale che si respira.
Anni prima della creazione dei social network, Zamperini scriveva: "il vocabolario che alimenta i mass media, la televisione, i quotidiani, serve come volano per immettere nell'immaginario miti che costruiscono muri simbolici nei rapporti umani". 
Oggi la maggior parte del vocabolario che passa sui social rispetto al tema migranti è carico di aggressività; dall'altro lato, si assiste sempre di più ad una incapacità sociale di gestire la rabbia, che viene canalizzata e buttata fuori in maniera esplosiva. 
D'altronde, società molto individualiste mettono a rischio il valore naturalmente protettivo delle reti sociali, e forse anche all'interno di questo quadro possiamo sentire quanto, dentro una società di singoli, sia minacciosa l'immagine di una comunità che accoglie in maniera organizzata. La crisi sociale è infatti talmente estesa da aver messo in dubbio anche il valore umanitario dei salvataggi ad opera delle Ong che lavorano nel Mediterraneo.
Su questo, ancora una volta, l'insicurezza fa coppia con la mancanza di risorse: e così l'oceano borderline dilaga i confini della personalità individuale diventando una questione sociale, quella di una comunità che non trova più mezze misure, che ha un pensiero unicamente dicotomico: bene/male, bianco/nero, giusto/sbagliato. 

Questi tre elementi, lungi dal voler spiegare da soli il tema collettivo, sono comunque tre aspetti sistemici sui quali gli psicologi potrebbero essere chiamati ad intervenire, prima che questo malessere sociale si allarghi ancora di più.
La psicologia ci insegna che ciascuno può aiutare a far cessare o, meglio, prevenire, eventi sociali disastrosi, implementando un sentimento di solidarietà sociale: che non è non un atteggiamento da buoni samaritani, ma il presupposto essenziale per una convivenza pacifica. Tutto questo, ovviamente, se riusciamo a mettere l'essere umano e la sua tutela prima di ogni altra cosa.

Come scriveva Zamperini: "Un'informazione mirata, fondata su un adeguato quadro concettuale di analisi, può innescare la consapevolezza di ciò che sta accadendo, alimentando un'azione tempestiva, sempre che le orecchie cui giungono le notizie siano disposte ad un ascolto attento dei primi segnali di vittimizzazione.
Un fenomeno assai raro quando generalmente prevalgono gli interessi interni di bottega e la tutela delle persone è asservita a logiche politiche ed economiche: dopotutto, chi muore"fuori casa" non è percepito come un "nostro" morto".

giovedì 20 aprile 2017

Ritorno al futuro.

Riflessione sui potenziali orizzonti della psicoterapia sistemico relazionale.

Al congresso SIPPR Giovani organizzato a Milano nel 2014, al quale parteciparono molti under quaranta della nostra società con interessanti interventi e spunti di riflessione, una cosa che mi colpì molto fu il gran numero di interventi fondati sul ricorso alle tecniche; molti dei giovani presenti si confrontarono infatti su aggiornamenti delle vecchie o nuove tecniche da applicare in psicoterapia. La domanda che allora mi venne in mente fu “perché?”, e con alcuni colleghi provammo a rispondere per scritto attraverso un breve articolo per Terapia Familiare e uno per la newsletter interna al nostro Centro:
“I giovani, si sa, cercano sicurezze, e cosa può metterci più al sicuro di un protocollo? E poi viviamo in un contesto dove impera l’idea che la tecnica ci salverà”. E’ il governo “tecnico” che tira fuori i paesi dai guai; l’Europa ci propone regole tecniche come risposta a una crisi; sui giornali leggiamo nei giornali che il futuro è dei lavori “tecnici”... “Insomma, come ci insegnano i colleghi della Psicologia Sociale, è nei momenti critici che i gruppi richiedono l’intervento salvifico di leader tecnici a discapito di quelli socio-emozionali! Dall’altro lato, l’approccio sistemico-relazionale non ha alla base una singola teoria, ma è figlio dell’incontro di molteplici e differenti approcci teorici. Forse la richiesta di tecniche è anche una ricerca identitaria dei giovani terapeuti, che interrogandosi sui contesti di intervento si chiedono anche “cosa vuol dire ESSERE sistemici?” (Albertini, Mattei, Rontini 2014).

Non può però essere il progresso tecnico che fa procedere un paradigma, non può essere che le ad oggi si possa apportare solo questo al dibattito sistemico relazionale.
Eppure anche Bertrando sottolinea come la differenziazione per tecniche, orientamenti e idee ha caratterizzato negli ultimi anni il composito mondo della psicoterapia sistemico relazionale. Nel 1998, scriveva:

 "La storia delle terapie familiari è una storia discontinua, che procede per salti. A partire dalla sua nascita negli anni cinquanta, sono costantemente emersi orientamenti nuovi. Circa a ogni decennio, qualcuno di essi ha preso il centro della scena, portando in secondo piano i precedenti. Ogni volta, i sostenitori del nuovo hanno scomodato Thomas Kuhn per parlare di “cambiamento di paradigma”. Ci sono diversi motivi per questo stato di cose, non tutti di stretta pertinenza teorica. Il più importante è probabilmente la necessità, per ogni nuovo modello, di differenziarsi quanto più possibile dagli altri, quella che Framo (1996) chiama the battle of brand names, “la battaglia dei marchi depositati”. C’è, in questo, una grande differenza fra terapeuti della famiglia e psicoanalisti. Gli analisti, che concepiscono la propria disciplina come continuità, insistono a citare Freud a cent’anni dai suoi primi articoli. I terapeuti della famiglia, che vedono la propria disciplina come costantemente rifondata, hanno difficoltà a citare articoli più vecchi di dieci-quindici anni. Sta di fatto che, nell’evoluzione delle terapie familiari, la continuità è rintracciabile soltanto al prezzo di qualche sforzo di attenzione.” (Bertrando 1998)

Il futuro della psicoterapia sistemico relazionale è quindi quello di balcanizzarsi in decine di paradigmi diversi, che hanno in comune solo il richiamo (più o meno esplicito) ai sistemi e alla cibernetica?
Gianmarco Manfrida nel 2009 scriveva “Il modello terapeutico familiare-sistemico-relazionale è riconosciuto tra quelli fondamentali in Italia e in molti paesi ma.. non sono sicuro che il popolo dei terapeuti relazionali si sia effettivamente costituito in una sicura identità. Dice Juan Luis Linares che, inizialmente, eravamo uniti da una posizione alternativa, iconoclasta, di innovatori del settore terapeutico e della salute mentale, ma che basarsi su una identità rivoluzionaria dopo quaranta anni, con capelli bianchi pancette e acciacchi vari, ci rende preoccupatamente simili agli irriducibili nostalgici dell’ideologia comunista, che però almeno la loro rivoluzione l’hanno portata avanti più di noi…”.
I giovani terapeuti sistemici appaiono abbastanza disorientati, e rispondo al disorientamento in maniera anche costruttiva. Le nuove generazioni stanno apportando contributi teorici incentrati alla scoperta, implementazione prova e conferma di nuove tecniche. Sembra però mancare fra i “nuovi orizzonti” uno spazio di riflessione sul paradigma, e sui nuovi linguaggi.
Siamo proprio sicuri che le tecniche porteranno il nostro paradigma a nuove fasi di crescita? Che lo renderanno adattabile alle nuove sfide che i cambiamenti socio politici e culturali ci mettono di fronte? Sinceramente non credo, e prendo a prestito le parole dell’artista Enrico Castellani:

"Io non credo alla tecnica come lievito per nuove idee, come provocatrice di cose nuove: sarà sempre subordinata dalla volontà dell'artista. Quando avessi in mente un progetto che fosse una invenzione di linguaggio, in questo caso troverei anche la tecnica esatta. La tecnica viene automaticamente dopo l'idea, ma come fatto spontaneo: la ricerca della tecnica, per me, è a un livello talmente normale che non vale neanche la pena di parlarne" (Enrico Castellani, in "Autoritratto" di Carla Lonzi, corsivo mio).

E invece negli ultimi anni pare succedere proprio questo all’interno del nostro modello: “Non tutti hanno la fortuna di assistere così direttamente alla nascita di una moda e io non sono in grado di precisare qual siano le maestà che le impongono in terapia relazionale. Ricordo, però, molte ricette che hanno spopolato in certi periodi: il capretto espiatorio, la lingua sistemica, l’uso dello spazio, l’estetica del cambiamento, la prescrizione in salsa paradossale, invariabile o di potere, lo sforzo epistemologico, al differenza di genere, la co-cottura (pardon, costruzione) della realtà, l’individualità del terapeuta, il joining, la circolarità” (Manfrida, 2004).

Il paradigma sistemico relazionale ci insegna che non c’è futuro senza un passato, senza una storia. I nuovi orizzonti quindi non possono non prendere spunto dalle radici, da quelle più antiche, per recuperare ciò che ha reso l’approccio sistemico così differente e speciale rispetto a tutti gli altri paradigmi.

 “Ad inventare mode e sviluppare linguaggi esoterici noi terapeuti relazionali siamo sempre stati anche troppo bravi, al punto di vivere in una allegra anarchia in cui tante scuole e sottoscuole parlano idiomi e dialetti non sempre del tutto comprensibili; se abbiamo peccato, non è stato nel senso di una volgarizzazione e perdita di specificità all’americana, ma in quello della chiusura e, peggio, della scelta della instabilità di idee per sfuggire alla banalizzazione” (Manfrida, 2004).

Il rischio di adottare idee instabili per sottolineare la specificità di tecniche e teorie di cui parla Gianmarco Manfrida mi sembra del resto quello più “in linea” con la società moderna, che chiede soluzioni rapide a problemi complessi e aumenta l’incertezza personale, culturale e sociale. Dall’altro lato, una risposta a questa precarietà incentrata su aspetti esclusivamente tecnici rischia di rendere ancora più instabili le idee di base, e quindi aumentare l’angoscia che guida chi cerca risposte, ad esempio nella psicoterapia.

Cosa recuperare quindi, che ci dia maggiore stabilità e che possa illuminare il nostro futuro? Cosa, al di là delle differenze, rende le persone riunite in questa stanza “simili”?

Forse per prima cosa si dovrebbe partire dalle due parole alle quali difficilmente rinunciamo, che sono “relazione” e “sistema”.
L’idea di relazione, oltre a impedire la separazione fra individuo e contesto, ci permette di guardare allo stesso tempo al contesto come un sistema di relazioni più ampio di quello interpersonale. Il modello ecologico proposto da Urie Brofenbrenner chiama il  microsistema quello composto dai rapporti interpersonali diretti; il mesosistema è quello che definisce i rapporti fra diversi microsistemi (ad esempio la relazione fra sistema-famiglia e sistema-scuola). Inoltre, viene teorizzato un esositema, un sistema a cui l’individuo non partecipa direttamente ma che influisce su di lui (ad esempio per i figli,l’insieme delle relazioni nell’ufficio della madre), ed un macrosistema di culture e organizzazioni più ampie, credenze, norme politiche  ideologie.

Il ricorso alle tecniche di cui parlavamo appartiene ad un intervento a livello di microsistema. Ma quello che si può osservare è che l’intervento nel microsistema rischia di diventare l’unico intervento, una modalità terapeutica che ci differenzia da altri approcci solo per i linguaggi utilizzati e le tecniche (appunto), e non per una visione teorica differente alla base. Perché, per partire, non recuperare la ricchezza della complessità dei sistemi ricordandoci che “occuparsi solo di famiglia è arbitrario e i primi teorici dei sistemi lo sanno benissimo: i sistemi umani in cui ci muoviamo sono virtualmente infiniti”? (Bertrando Toffanetti).
Chiuderci nel nostro microsistema può essere sicuramente più rincuorante, può aprirci spazi di mercato individuali anche appetitosi, ma sicuramente  amplia quella sensazione di “rivoluzione fallita” di cui alcuni autori all’interno del nostro paradigma hanno fatto riferimento (Manfrida, Andolfi, Linares..).

domenica 26 marzo 2017

Attenzione, contiene spoiler!

Le serie tv e il racconto della famiglia che verrà


Ieri, 25 marzo, presso il convengo SIPPR Giovani insieme ad un gruppo di colleghi abbiamo presentato un contributo sulle famiglie descritte nelle serie tv.

Le serie tv sono un fenomeno in ascesa ed un prodotto mediatico in estrema evoluzione: dalle prime esperienze degli anni '60 ad oggi, abbiamo assistito a un progressivo complessificarsi e perfezionarsi del prodotto-serie, che in molti casi attualmente può competere con la qualità del prodotto cinematografico.
Il fenomeno è talmente importante da aver prodotto cambiamenti significativi nell'immaginario collettivo e a livello sociale: intorno alle serie tv più in voga nascono abitudini, collezionismi, passioni, gruppi di fan, modi di dire ("spoilerare" e "fare binge-watching" sono due neologismi legati al mondo delle serie).

Le serie tv, nuovo prodotto dal consumo di massa, veicolano stili di vita e modelli sociali in maniera più diretta rispetto alla vecchia tv o al cinema: la condivisione sociale, online e in presenza, è infatti uno dei motivi che rendono così accattivante la serialità.
In quanto prodotto "industriale", le serie tv raccontano la società in cui viviamo e raccolgono nella loro narrativa temi importanti per l'opinione pubblica; in un percorso di retroazione comunicativa, però, influenzano a loro volta la società raccontando realtà "altre" o sdoganando temi attuali più o meno scomodi.

Fin dalla prima puntata della famiglia Addams negli anni '60, le serie tv hanno narrato le famiglie e, attraverso di esse, la società dell'epoca. Se è vero che serie e realtà si modificano a vicenda in un percorso retroattivo, quali sono ad oggi i modelli di famiglia che arrivano nel nostro soggiorno attraverso la tv?

Il presente lavoro intende analizzare e mettere a confronto alcune immagini di famiglie presentate dalle serie tv, come strumento di riflessione sugli ideali familiari veicolati socialmente, che diventano realtà dominanti con le quali fare i conti nella stanza di terapia.


Potete trovare il contributo al seguente link: 

Attenzione, contiene spoiler!


sabato 25 marzo 2017

Cronicità e resilienza

L’importanza della diagnosi relazionale nelle malattie croniche 



Le malattie croniche sono in costante aumento, complice anche una maggiore (e migliore) capacità diagnostica, nonché l’invecchiamento progressivo della popolazione.
L’Organizzazione Mondiale della Sanità dal 2001 realizza indagini periodiche sulla presenza e gestione nei singoli paesi delle malattie croniche (includendovi le malattie cardiovascolari, le malattie respiratorie croniche, il diabete e il cancro); ad oggi queste malattie sono la causa di morte per circa il 70% della popolazione mondiale. 

Lo scorso 6 settembre a Copenhagen dalla Regione Europea dell’OMS sono state poste le basi per il nuovo Piano di azione sulle malattie croniche non trasmissibili, dove è stato sottolineata l’importanza della prevenzione sia a livello di popolazione (promozione di stili di vita salutari), che a livello individuale (valutazione del rischio dei singoli e diagnosi precoce). In questa stessa sede è stata sottolineata l’importanza della promozione della salute mentale come attività di prevenzione dei fattori di rischio, nonché di supporto nella gestione delle malattie: è stato infatti dimostrato come fattori psicosociali possano esporre maggiormente al rischio di problemi cronici, in particolare in associazione con sintomi depressivi e isolamento sociale. E’ sempre più forte quindi la connessione fra fattori organici e fattori socio-psicologici, i quali diventano non solamente opportunità di sostegno da attivare al momento dell’inizio della cura, ma vere e proprie azioni di prevenzione e intervento.

Quando ci si trova davanti a una diagnosi di malattia cronica, la persona colpita realizza di trovarsi di fronte a una notizia che comporterà un profondo cambiamento nella propria vita; proprio per questo, è comune provare inizialmente un grande senso di smarrimento, accompagnato successivamente da sintomi di tipo ansioso o depressivo, vissuti di rabbia e paura, senso di frustrazione ed impotenza, senso di colpa verso i familiari o altre persone vicine: una ricerca del 2002 ho sottolineato che, su 739 soggetti con Sclerosi Multipla intervistati, il 41,8% presentava sintomi depressivi clinicamente significativi.

La presenza di una malattia cronica pone le persone di fronte alla necessità di riadattare le proprie abitudini e, a livello psicologico, le proprie strategie di coping: ma alcune  ricerche sostengono che in questi casi circa il 30% dei pazienti non riesce a recuperare uno stato psicologico equilibrato, e la cosiddetta “fase di aggiustamento” alla nuova situazione si prolunga nel tempo.

Spesso il sostegno psicologico dato in queste fasi si concentra molto sulla persona che ha avuto la diagnosi; la famiglia, la coppia, o il sistema all'interno del quale la persona vive non viene dimenticato, ma è preso in considerazione principalmente per gli aspetti di sostegno e cambiamento da mettere in atto per aiutare il malato. Questo purtroppo riduce molto la possibilità di intervento, e quindi di miglioramento, della condizione individuale del paziente:  tutto il sistema risulta infatti perturbato nella propria vita quotidiana e nella propria identità dalla diagnosi di malattia cronica. L’evoluzione delle malattie croniche in generale, abbastanza conosciuta ed affrontata sul piano psicologico individuale, non è tuttora adeguatamente valorizzata e trattata sul piano delle relazioni interpersonali: un evento inatteso e drammatico come la diagnosi di malattia cronica può arrivare a bloccare l’evoluzione di tutto il sistema familiare coinvolto.

Immaginate il caso in cui ad ottenere una diagnosi sia un giovane, magari neoimpiegato, pronto ad andare a vivere da solo: la paura per un futuro che diventa immediatamente più incerto e insicuro può fermare questa esperienza di autonomia, bloccando il progetto di vita del ragazzo e al contempo creando nei genitori dei profondi vissuti di ansia e angoscia che possono portare ad un nuovo, e più serrato, accudimento del figlio. Oppure casi in cui in una coppia, all’ammalarsi di un membro, l’altro mette in atto scelte che sacrificano il proprio mondo sociale e lavorativo per stare a casa ed aiutare il partner. Nella nostra pratica quotidiana non è raro vedere come proprio i membri della famiglia possono a loro volta sviluppare sintomi psicologici che rischiano di non essere presi in considerazione perché considerati “meno gravi” rispetto alla malattia cronica: “non si preoccupi per me, il malato non sono io!” è una delle frasi che partner, genitori o figli pronunciano con maggior frequenza quando vengono invitati a parlare della situazione psicologica del sistema-famiglia.

I legami affettivi e di sostegno, di fronte a una diagnosi di malattia cronica, vengono rinforzati, e questo rappresenta un valore aggiunto se le risorse messe in campo sono utili per creare un nuovo equilibrio e un adattamento alla nuova condizione di vita. C’è però il rischio che lo stress, l’ansia, la paura connessi alla diagnosi rinforzino i rapporti in modo eccessivamente protettivo, creando intorno al malato un mondo rigido di rapporti e bloccando l’evoluzione del singolo, della coppia, della famiglia.

Il significato che l’evento-malattia ha per il paziente e per tutta la sua famiglia dipende da molti fattori quali la storia familiare, le premesse che vi erano prima della diagnosi, i ruoli svolti da ogni membro ed il modo condiviso e specifico di costruire ed interpretare la realtà. Quindi, a ciascuna storia di malattia corrisponde una narrativa personale e speciale. Non dimentichiamoci però che questa “unicità” della storia non significa “individualità”: quella della malattia è infatti una storia che coinvolge il malato in primis, ma anche le persone che vivono maggiormente  a contatto con lui. Prendersi cura di chi sta male significa anche, e a volte soprattutto, prendersi cura delle persone che ha accanto, partner, genitori, fratelli, figli.

Diceva Darwin che la specie che si evolve e sopravvive non è quella più forte né quella più intelligente,ma quella maggiormente capace di adattarsi al cambiamento. Questo concetto vale sì per le specie, ma anche per i singoli individui, e per noi psicoterapeuti la capacità di resilienza resta un fattore fondamentale da verificare al momento in cui viene richiesto il nostro aiuto. Nelle famiglie colpite da diagnosi di malattia cronica, la resilienza è un fattore predittivo della migliore o peggiore capacità futura di poter convivere con i sintomi e, laddove possibile, avere una vita piena e soddifacente