La mediazione linguistico-culturale in ambito scolastico
Nell’ambito della psicologia
sociale e di comunità, varie ricerche coincidono nell’affermare che la scuola
rappresenta il nodo centrale per l’integrazione della popolazione immigrata di
più giovane età. Recentemente, alcune ricerche in ambito nazionale hanno
dimostrato come enti quali la scuola rivestono un ruolo fondamentale per
determinare l’esito del percorso di integrazione di bambini ed adolescenti
(Pomicino, Romito, Paci 2008).
In età adulta, l’esperienza di immigrazione può
comportare quello che viene definito
stress
da transuculturazione: repentini cambiamenti di ambiente ed abitudini di
vita che coinvolgono sia gli aspetti strutturali, che quelli processuali
dell’identità. Queste difficoltà possono venire ampliate se l’esperienza
migratoria viene vissuta nelle fasi dell’infanzia e dell’adolescenza, momenti
fondamentali per la costruzione e la strutturazione identitaria.
Inoltre, anche
per i figli di migranti nati in Italia, il processo di costruzione
dell’identità è comunque più complesso, mancando un “prima” e un “dopo” che
riescano a definire il proprio passato e il proprio futuro. Se i genitori migranti hanno, infatti, una solida
identificazione con la loro cultura di origine che li lega alla propria storia,
oltre ad un progetto migratorio definito che rappresenta il loro futuro, ai
loro figli manca spesso questo “ieri” e questo “domani”: non hanno un
riferimento al passato, e il loro futuro è più incerto di quello della
generazione precedente (Mazzetti 2003). In questo processo dinamico di
costruzione di identità e sostegno, è importante quindi pensare la scuola come
uno dei supporti fondamentali, un luogo dove i bambini e gli adolescenti
stranieri possano “ricucire lo strappo fra il dopo e il prima”:
per il recupero delle loro radici hanno bisogno di
riconoscerne il valore. È possibile agevolarli creando un’atmosfera di rispetto
e di valorizzazione per la loro terra di origine […]. Perché si sentano di
appartenere all’Italia, bisogna aiutarli a costruirsi un nuovo progetto di vita
qui, a costruire fantasie su come saranno da grandi nella nuova patria. E per
rammendare lo “strappo” tra il dopo e il prima, occorre aiutarli a ricostruire
una storia i cui vari elementi della loro biografia, ma anche quella dei loro
familiari, trovino un senso reciproco, e si uniscano qui nel presente (Mazzetti
2003, pag. 167)
La scuola, inoltre, rappresenta
un punto di incontro e inclusione importante non solo per i figli: la riuscita
e il benessere scolastico sono stati considerati da alcuni autori come
indicatori significativi dell’adattamento al Paese ospitante della famiglia nel
suo complesso (Portes, Rumbaut 1990; Mancini, Secchiamoli 2003). Inoltre, da un
lavoro che ha coinvolto genitori italiani, genitori stranieri e insegnanti in
alcune scuole di Milano è stato sottolineato come nei contesti scolastici le
relazioni fra italiani e migranti, sia quelle che riguardano i bambini che
quelle relative ai genitori, vengano vissute in maniera poco problematica, a differenza
di quanto accade ad esempio nei quartieri di residenza, dove le relazioni fra
cittadini autoctoni e migranti sono vissute in maniera più complessa e
conflittuale (Brunazzi, Marando, Colombo 2008).
Sulla scuola gravano quindi
aspettative elevate rispetto al tema dell’accoglienza degli alunni (e,
indirettamente, delle famiglie) stranieri. A fronte del pregiudizio per il
quale questa professione è stata sempre considerata “soft”, l’insegnamento è
oggi diventato molto più problematico rispetto a quanto sia mai stato nel
passato. In una ricerca che ha analizzato le due microaree della professione,
cioè quella didattica-educativa e quella socio-relazionale, è stato
sottolineato come, accanto a programmi didattici sempre più dettagliati e alla
realizzazione di progetti in orario extra scolastico, sia cambiato
profondamente il modo degli alunni e delle famiglie di relazionarsi alla
scuola: agli insegnanti viene richiesta una maggiore capacità di lavorare in
rete con i colleghi, di relazionarsi con le famiglie, e di affrontare i
problemi dei cambiamenti delle classi dovuti all’aumento di alunni stranieri
(Giusino, Arcuri, Novara 2008). Tali modifiche rendono oggi al professione
dell’insegnamento una delle più esposte a rischio burnout. Una efficace preparazione
del personale docente può favorire i processi di integrazione degli alunni
stranieri: la scuola rischia però di divenire un contenitore sul quale si
concentrano elevate aspettative senza che vengano realmente dati a docenti,
personale ATA, dirigenti, i reali strumenti e le risorse utili a una gestione
produttiva delle difficoltà derivate dalla presenza di bambini stranieri.
Esiste un interessante studio
condotto su un gruppo di 182 insegnanti della scuola dell’obbligo rispetto al
tema della scuola multiculturale (Francani, 2004 citato in Mancini 2006). Da
questa ricerca emerge il quadro di una scuola a volte impreparata a gestire
tutti i problemi che la presenza di alunni stranieri comporta per il sistema
scolastico: circa un terzo degli insegnanti intervistati si dichiara ottimista
rispetto all’integrazione scolastica, mentre quasi 4 su 10 appaiono scettici,
mostrando una visione assimilazionista della società. Ma il dato maggiormente
preoccupante riguarda quei 3 insegnanti su 10 che si dichiarano intolleranti
sia nei confronti dell’integrazione che rispetto alla presenza di alunni
stranieri, considerati una delle cause di peggioramento della scuola italiana.
Al di là delle complesse
problematiche che la pedagogia interculturale comporta, da un punto di vista
psicosociale viene sottolineata la carenza di ricerche volte a verificare se e
in quale misura l’atteggiamento degli insegnanti incida sulle modalità con le
quali bambini e adolescenti migranti “negoziano” gli aspetti etnico-culturali
della loro identità (Mancini 2006). Questo problema cruciale diviene il
collegamento ideale per inserire il tema della mediazione linguistico-culturale
nella scuola: in un lavoro del 1998 svolto nel Comune di Bologna veniva infatti
sottolineato come una importante funzione del mediatore a scuola fosse quella
di “rinforzo dell’autostima e dell’identità” dei bambini stranieri. I bambini
sembrano infatti vedere il mediatore come “uno di loro”, che però sta al di là
della cattedra (Tarozzi, 2006).
È partendo da queste premesse che ci
siamo avvicinati al tema della mediazione interculturale nella scuola, tenendo
cioè in profonda considerazione la difficoltà relazionale che comporta gestire
da un lato una classe dove sono presenti alunni stranieri, e dall’altro, la
complessità del processo di integrazione. Nel corso del 2009 abbiamo svolto
all’interno di un progetto finanziato dalla Comunità europea un’indagine sulla
percezione dell’utilità della mediazione linguistico-culturale nel sistema
scolastico. L’intera ricerca è stata pubblicata nel Quaderno Cesvot n°47 dal
titolo “La mediazione linguistico-culturale. Stato dell’arte e potenzialità”.
È interessante notare come,
secondo quanto espresso dai partecipanti ai focus group portati avanti all'interno del progetto, la mediazione
linguistico-culturale nella scuola sia percepita come un’attività molto più
complessa di quanto non sembri ad un primo sguardo: la mediazione non è più vista come scambio e facilitazione
alunno-insegnate, ma appare come uno strumento da utilizzare all’interno della
rete più ampia e di un sistema che coinvolge sia l’istituzione scolastica, che
la famiglia, che il territorio di riferimento.
Nelle nostre interviste emerge come una criticità significativa il
problema della delega impropria da parte delle famiglie e dei docenti nei
confronti dei mediatori. Alcuni autori hanno sottolineato come questo rischio
fosse diminuito negli ultimi anni grazie a una maggiore definizione del ruolo e
della funzione dei mediatori:
più in generale rispetto al rischio di delega
eccessiva che riscontravo nella ricerca di dieci anni fa, l’affermazione e il
riconoscimento diffuso di questa figura ha fatto sì che le aspettative
eccessive restino, ma la delega forse no. Anzi si registra sempre più spesso da
un lato il rifiuto da parte di certe famiglie di accettare l’intervento di un
mediatore culturale percepito come un invadente strumento di assimilazione, e,
dall’altro, un controllo più serrato del suo operato da parte degli insegnanti
che pure lo impiegano ma tendono a non delegargli troppe funzioni (Tarozzi
2006)
Nel caso dei nostri insegnanti e
formatori questa percezione non coincide: nell’intervista emerge invece come l’attivazione
di un mediatore per una classe possa rappresentare una richiesta di supporto nella
gestione dell’aula: si corre il rischio di incorrere in un processo di delega
per cui il mediatore diventa una sorta di “insegnante di sostegno” per gli
alunni stranieri, una sorta di “enzima” al quale viene chiesto di velocizzare
il processo di inserimento senza in realtà coinvolgere il sistema-scuola nel
suo insieme.