mercoledì 24 aprile 2013

Perché le ginocchia sbucciate fanno meno male di un cuore spezzato


Riflessioni sulla crescita durante l’adolescenza


Stamattina insieme a una collega abbiamo organizzato un laboratorio nella classe prima di un istituto superiore sul tema del cambiamento e della crescita. Per favorire la partecipazione dei ragazzi e la discussione, abbiamo proposto loro un gioco: li abbiamo divisi in due squadre, una che aveva il compito di impersonare un gruppo di “conservatori” e un’altra che avrebbe dato voce ai “progressisti”, chiedendo a entrambe di prendere alcune posizioni contro o a favore del tema della crescita.

I ragazzi, come sempre accade, messi di fronte all’opportunità del confronto si sono aperti a mille idee, discutendo e mettendo in gioco aspetti positivi e criticità di questo periodo della loro vita. Un periodo “dove siamo ancora un po’ piccoli e un po’ no”, e a volte ci piace essere trattati come adulti e decidere in autonomia, mentre in altri momenti ci rincuora sapere che ci sono adulti ai quali demandare le nostre scelte.

Il tema più discusso fra i nostri “progressisti” e  “conservatori” è stato quello della responsabilità, e i  ragazzi ci hanno espresso riflessioni comuni oggi a molte generazioni. Perché crescere significa avere più responsabilità, e prendersi le proprie responsabilità spaventa: forse perché il mondo degli adulti non è più così definito come lo era un tempo, forse perché il futuro per i giovani è, se possibile, ancora più incerto di quello dei loro fratelli maggiori o dei loro genitori. Ma, anche se i tempi cambiano, alcune cose restano sempre le stesse: l’adolescenza è il momento in cui viviamo in maniera più forte il conflitto fra voler crescere e la paura di farlo.

La nostra professione è orientata alla crescita dell’individuo, e facciamo dell’individuazione e dello svincolo uno degli obiettivi principali del percorso terapeutico. Questo perché pensiamo che una persona sana è una persona che è riuscita a crearsi una propria identità all’interno del proprio contesto relazionale, che riesce a mantenere un equilibrio fra i propri bisogni e le richieste del mondo che ha intorno. Insomma, crescere secondo noi è una sfida e non si può mollare: per quanto sia difficile e spaventoso, da qui passa la nostra identità e la nostra vita adulta.

Però non ci dimentichiamo quanto, da adolescenti, sia difficile fare questa scelta, quanto faccia paura spiccare il volo. E stamattina questo pensiero ci è arrivato chiaro dalle parole di uno dei nostri studenti. Un ragazzo, che stava interpretando in maniera egregia il ruolo del più rigido conservatore, per convincere i suoi compagni ha sostenuto che preferiva la scelta di non-crescere perché da piccoli siamo chiamati ad affrontare problemi minori, “perché le ginocchia sbucciate fanno meno male di un cuore spezzato”.

Dentro di noi è spuntato un sorriso, e in fondo in fondo non abbiamo potuto non dargli ragione.

lunedì 15 aprile 2013

Un pezzo del racconto

La psicoterapia narrativa applicata ai casi di psicosi


In una interessante rassegna France e Uhlin (2006), partendo dalla considerazione del rinnovato interessescarsità di ricerche basate su approcci narrativi, sottolineano le grandi potenzialità di interventi di questo genere sia rispetto alla valutazione sia per il trattamento.  Gli autori hanno classificato i lavori dividendoli tra quelli centrati sul contenuto e sulla forma narrativa di storie da un punto di vista individuale e quelli centrati sul contenuto e sulla forma narrativa di storie costruite socialmente. Altri studi, basati sull’analisi qualitativa, hanno indagato le storie dei pazienti e quelle dei familiari rispetto allo sviluppo del disturbo psicotico (Barker et al., 2001); o hanno approfondito la struttura narrativa delle storie dei caregivers di pazienti psicotici rispetto alla malattia mentale (Stern et al., 1999).
nei trattamenti per le psicosi ed evidenziando la

L’intervento terapeutico come materiale di analisi qualitativa ha già consentito risultati interessanti, per quanto riguarda la ricerca sul metodo narrativo applicato a casi di psicosi (Holma e Aaltonen 1997, 1998). Secondo questi autori, infatti, nelle psicosi acute esiste un tentativo di ricerca di senso: ciò nonostante, alcune esperienze psicotiche vengono vissute ad uno stadio pre-narrativo, senza una spiegazione, e possono venire espresse dai pazienti solo attraverso un linguaggio metaforico. La comprensione di queste espressioni metaforiche permette a chi ascolta attentamente di condividere la sensazione di individui come “esseri nel tempo” (Meitinger, 1989). Inoltre l’identità personale stessa ha delle fondamenta narrative, che nelle psicosi acute sono compromesse o non abbastanza coerenti (Holma e Aaltonen, 1995); queste basi sono garantite da un continuo interscambio con i familiari e la società, che è stato analizzato con tecniche qualitative in diverse fasi dello sviluppo di una psicosi, corrispondenti a una progressiva perdita di senso (Barker et al., 2001).

Appare evidente l’importanza dell’approccio narrativo per aiutare i pazienti a “ri-scrivere le proprie vite” (White e Epston, 1990; White, 1995). Anche secondo Ricoeur (1991), l’approccio narrativo all’interno delle psicoterapie implica che il terapeuta costruisca delle storie alternative che ancora non sono state narrate: la vita è infatti un semplice fenomeno biologico finché non viene interpretata attraverso una narrazione.

Non basta però una semplice narrazione affinché l’intervento sia realmente terapeutico. È necessario che le storie alternative che possono emergere con l’aiuto del terapeuta abbiano delle caratteristiche che le rendano capaci di produrre un cambiamento. I sociologi P. Berger e T. Luckmann  (1966) mettono la conversazione umana, socialmente appresa, a fondamento della nostra illusoria sensazione di stabilità e controllabilità del mondo, costruita su continue e inconsce conferme reciproche di una condivisa banale quotidianità. La realtà banale condivisa garantisce una identità personale e una prevedibilità del futuro al paziente e alle persone che costituiscono la sua struttura sociale di riferimento, ma al prezzo di tenere in ombra nei sottomondi sociologici  alternative alle routine di tutti i giorni e alla attribuzione e assunzione di ruoli relazionali rigidi e talora patogenetici. Secondo il modello delle Realtà Condivise (Manfrida, 1998), nelle narrazioni dei pazienti, sommerse in un mare di banalità confirmatorie, compaiono a tratti, in modo incongruo, mascherato e sorprendente, delle discrepanze, squarci di racconti alternativi  provenienti dai sottomondi sociologici, sfere di dati e di significati anch’essi socialmente condivisi e confermati, ma minoritari e relegati nell’ ombra della consapevolezza.

Costruite intorno a queste discrepanze identificate dal terapeuta, le storie terapeutiche devono essere:
-         PLAUSIBILI, cioè condivisibili sia dal cliente che da altre persone significative, in modo da consentire di costruire una struttura sociale di conferma della nuova storia, scaturita da un sottomondo sociologico che si sostituirà al mondo della vita quotidiana precedentemente dominante e che viene rivelato dalle discrepanze nel racconto fatto al terapeuta;
-         CONVINCENTI, cioè promosse e sostenute dal terapeuta con tecniche atte a sovvertire sul piano logico e su quello emotivo le precedenti opinioni del cliente e delle sue persone di riferimento;
-         ESTETICAMENTE VALIDE, tali da coinvolgere le persone, rendendone più varia ed emozionante e meno restrittivamente banale la vita quotidiana.

Le narrazioni che si sviluppano in terapia hanno un inizio, uno sviluppo, una conclusione: partono dall’ascolto critico, attento alle discrepanze, del racconto banale dei pazienti, a cui segue la proposta di una storia alternativa plausibile, accettabile e confermabile dal paziente e dalla sua struttura sociale di riferimento. E’ la PLAUSIBILITA’ che consente di proporre il brogliaccio della nuova storia e di definire il contratto che autorizza a lavorarci sopra; gli aspetti PERSUASIVI fanno da ponte, rinforzando sul piano logico ma anche emotivo lo sviluppo della nuova storia; questa viene coronata infine sul piano ESTETICO dal coinvolgimento paritario e dall’alleanza coi pazienti allo scopo di affrontare le sfide e realizzare insieme l’impresa proposta dalla nuova storia sviluppata in terapia.

E’ in via di pubblicazione nella rivista “connessioni” un lavoro svolto presso il CSAPR (Prato) nel 2011 di analisi qualitativa dei processi terapeuti di pazienti psicotici portati avanti con tecniche narrative.
Il nostro lavoro di analisi qualitativa conferma quanto emerge in letteratura, cioè l’importanza di strutturare una narrativa per dare senso e coerenza alla storia e ai sintomi dei pazienti e l’ utilità del metodo narrativo per intervenire in contesti familiari dove sono presenti sintomi psicotici, che non siano né in fase florida né cronicizzata. Il nostro lavoro conferma inoltre che, quando si utilizzano metodologie terapeutiche narrative, è fondamentale lavorare sul tempo: la terapia narrativa permette infatti di dare ai singoli eventi una dimensione temporale univoca condivisa, inducendo così una ristrutturazione di identità del paziente psicotico attraverso il recupero di due  dimensioni fondamentali per l’identità personale quali  la narrazione e il tempo. Abbiamo potuto notare come i terapeuti in queste situazioni di lavoro con situazioni psicotiche scandissero più del consueto l’impiego di una tecnica o di uno stile di conduzione particolare a seconda del momento della terapia. Questa osservazione ha colpito noi per primi, visto che tale dato non era venuto in evidenza così nettamente quando si erano analizzate con lo stesso metodo terapie con patologie differenti: potremmo ipotizzare che gli stessi terapeuti nei casi di situazioni psicotiche attuino i loro interventi con più chiarezza e maggior definizione di quanto non facciano con sintomatologie di altra natura.

Lungi da noi voler dare facili ricette o soluzioni: non ci azzarderemmo mai a dire “la terapia con famiglie psicotiche va fatta suddividendo la consulenza in tre parti, e dedicando la parte centrale al recupero della storia” e via dicendo. Ciò nonostante, poiché si parla di narrazione e proprio perché sappiamo che anche le narrazioni più condivise, come le fiabe, al di là di aspetti culturali e contestuali, hanno strutture di riferimento che le rendono simili (Propp, 1928), abbiamo sentito la necessità di proporre una riflessione su come creiamo narrazioni terapeutiche, e su cosa abbiamo di simile noi terapeuti che ci unisce al di là dei differenti stili o dei differenti modelli utilizzati.

martedì 9 aprile 2013

“Il coraggio, uno non se lo può dare”… oppure sì?

 Presentati al Congresso SIPPR 2013 i primi risultati dell’indagine sul coraggio in Psicoterapia  a cura di Gianmarco Manfrida e Valentina Albertini


“Il coraggio, uno non se lo può dare!” diceva uno sconsolato Don Abbondio al cardinale Federigo che lo interrogava sul mancato matrimonio di Renzo e Lucia. Questa frase, ripescata fra le memorie scolastiche, ci risuonava in testa come un grande punto interrogativo quando abbiamo iniziato a porci le domande che ci hanno poi condotto a elaborare questa piccola ricerca: don Abbondio aveva ragione? Il coraggio è una caratteristica innata o la si può apprendere con il lavoro e la formazione?

Per dare risposte ad alcune di queste domande, nel corso del 2012-2013 abbiamo portato avanti un’indagine sul tema del coraggio degli psicoterapeuti, argomento forse marginale rispetto ai tanti che vengono trattati nella nostra formazione, ma secondo noi centrale per svolgere la nostra professione.

Obiettivi di questa piccola ricerca erano quelli di riflettere sul tema del coraggio come strumento presente o meno nella "cassetta degli attrezzi“, capire cosa significasse "coraggio" per i nostri colleghi terapeuti, analizzare la percezione rispetto al "coraggio”  come strumento in terapia e verificare se esistessero situazioni in terapia in cui è necessario particolare coraggio, nonché situazioni in cui il coraggio non è necessario.

Per portare avanti l’indagine, abbiamo creato appositamente un questionario semi-strutturato composto da 21 domande, che è stato inviato e raccolto via e-mail e per somministrazione diretta. Le domande sono state analizzate per frequenze di risposte e con analisi qualitativa del testo.

All’indagine hanno partecipato 105 colleghi, per il 60% donne, di cui 77 con Laurea in Psicologia e 23 con Laurea in Medicina. Rispetto alle scuole di specializzazione di provenienza, 74 avevano una formazione sistemico relazionale, 3 cognitivo-comportamentale, 3 strategico, 3 gestaltico,  mentre 13 provenivano da un altro approccio teorico. L’età media dei partecipanti era di 45 anni, e mediamente il nostro campione svolgeva l’attività terapeutica da almeno 11 anni.

Durante il Congresso SIPPR 2013 che si è svolto a Prato dal 7 al 9 Marzo 2013, abbiamo presentato i primi risultati della nostra indagine, che in parte trascrivo in questo post.

Il dato emotivamente più significativo è che il coraggio per i nostri colleghi fa rima con “responsabilità”: è questo infatti uno dei sinonimi ritenuto più inerente dalla maggioranza degli intervistati.

La maggior parte dei nostri colleghi intervistati sostiene che il coraggio sia una risorsa sempre necessaria, mentre 29 partecipanti sostengono che non sia utile con pazienti collaboranti e/o con sintomi lievi, in situazioni ritenute non gravi, e quando siamo sicuri dell’applicazione di tecniche conosciute.

I partecipanti sostengono che il terapeuta migliore non è quello che non ha mai paura, ma quello che riesce a prendersi, con coraggio, le responsabilità delle proprie azioni e delle proprie scelte.

Vista la grande importanza che tutti confermano al coraggio, ci piace sottolineare come per gli intervistati questa caratteristica non sia innata, ma si possa apprendere nel corso del lavoro terapeutico, durante il training e con il sostegno delle supervisioni.

Insomma, ci vuole coraggio per fare il nostro lavoro, e questo coraggio lo apprendiamo col tempo e con la formazione. Non è quindi Don Abbondio che parla nelle nostre teste: anzi, forse ci sentiamo più il Cardinale Federigo….

"E quando vi siete presentato […] per addossarvi codesto ministero, v'ha fatto sicurtà della vita? V'ha detto che i doveri annessi al ministero fossero liberi da ogni ostacolo, immuni da ogni pericolo? O v'ha detto forse che dove cominciasse il pericolo, ivi cesserebbe il dovere? O non v'ha espressamente detto il contrario?”