venerdì 22 febbraio 2013

Groupies!

L’identità sociale fra “pelle” e “maglietta” nei gruppi di adolescenti


Stamattina insieme ad una collega abbiamo gestito dei laboratori  in una scuola superiore dove eravamo state chiamate per un intervento sulle dinamiche di gruppo nelle classi prime e seconde. La richiesta degli insegnanti che ci hanno commissionato l’intervento era quella di aiutarli nella gestione di alcune criticità e di migliorare la comunicazione all’interno del gruppo di alunni. E’ stato come profondamente interessante osservare le dinamiche di presentazione degli alunni nel gruppo e vedere come nella dimensione della classe venissero giocati differenti aspetti dell’identità sociale: “sono un rapper”, “sono una directioner” (neologismo per i fan di un gruppo musicale), vicini ad alcuni evergreen come “sono un viola” (tifoso della fiorentina), “sono di destra/sinistra”, e così via. Oltre ad averci fatto sentire un po’ agée (ai nostri tempi, tutt’al più, eravamo “sorcini”o “metallari”), questi riferimenti gruppali sono stati l’occasione per una riflessione condivisa su quanto le identità sociali siano in continuo cambiamento, in totale sincronia con i mutamenti sociali che possiamo osservare quotidianamente.

 
Ma perché questa parte della nostra identità che ha le sue radici nei riferimenti gruppali è così importante? Quando si parla di problemi connessi alla formazione di identità, si parte dal presupposto teorico che gli esseri umani definiscono loro stessi anche in base alle caratteristiche dei gruppi di cui fanno parte, e che tendenzialmente tendono a dare di questi gruppi una valutazione positiva, per potersi attribuire gli stessi giudizi favorevoli. Quella parte di sé che deriva dalla conoscenza della propria appartenenza ad un gruppo (o a più gruppi) socialmente individuato, e il significato emotivo riconosciuto a tale esperienza, è stato definito da Tajfel “identità sociale” (1974).
Noi inferiamo giudizi e caratteristiche riferite alla nostra identità anche confrontandoci con i gruppi dei quali facciamo parte. Tajfel e Turner (1979), partendo dal presupposto che i soggetti preferiscano dare un’immagine positiva di sé, ipotizzano che, al momento del confronto, le persone mettano in atto una “specificità positiva”, cioè una distorsione dei risultati o degli eventi al fine di raggiungere una valutazione positiva del proprio gruppo. Questa affermazione ha origine dalla teoria del confronto sociale di Festinger (1957): tendiamo ad attribuire caratteristiche e pregi al nostro gruppo confrontandolo con altri, e l’esito di questo confronto è direttamente connesso alla nostra autostima. Partendo da queste premesse, si comprende come, anche in situazioni di “gruppo minimo” (un gruppo i cui membri non hanno nulla in comune se non l’essere stati scelti dallo sperimentatore), diventi importante per l’autostima dei partecipanti favorire il proprio ingroup.

L’identificazione sociale non può infatti  prescindere dalle valutazioni che vengono attribuite al gruppo (o ai gruppi) al quale tale identità viene ancorata. In alcuni contributi teorici più recenti, soprattutto inerenti la psicologia transculturale, l’identità sociale è stata ulteriormente suddivisa nei concetti di “identità pelle” e “identità maglietta” (Hobsbawm 1996): mentre le prime rimangono stabili (razza, sesso), la maggior parte delle identità collettive si pensano appartenere alla seconda categoria, in quanto sono contestuali e gli individui possono decidere se “indossarle” o meno. Tale ipotesi è congruente con le risposte date alla questione del formarsi dell’identità sociale in contesti oggi sempre più complessi: alcuni studi recenti hanno dimostrato come i confronti sociali tendano infatti a strutturarsi in termini multidimensionali o sulla base di appartenenze multiple.

Se la creazione di identità sociale nasce con il confronto fra quale gruppo ha/è più e quale ha/è meno, si deduce il ruolo saliente che le diversità possono giocare nella formazione di identità sociali. Cosa succede se il confronto sfavorisce il nostro gruppo di appartenenza? La possibilità di uscire dal gruppo, qualora questo non favorisca la creazione di identità positive per gli individui, è possibile se si percepisce una situazione di mobilità sociale, cioè solo nel caso in cui un passaggio ad un gruppo più prestigioso venga percepito dai soggetti come una reale possibilità. In questo caso si manifesta da parte dell’individuo un abbandono reale o simbolico del gruppo. Quando invece l’abbandono non è una strada percorribile, le strategie adottate sono quelle di limitarsi ad effettuare il confronto con gruppi di status simile/subordinato, oppure  abbandonare la competizione.  Le persone appartenenti a gruppi svantaggiati, per mantenere alta la stima di sé, si trovano spesso di fronte alla necessità di difendere o rafforzare la propria identità sociale, a meno che non abbiano interiorizzato la propria situazione di inferiorità: secondo la teoria della “giustificazione del sistema”, infatti, le persone tendono a giudicare il sistema sociale all’interno del quale il proprio gruppo è inserito come giusto, legittimo e desiderabile. La giustificazione del sistema è coerente e priva di conflitti per il gruppo a status più elevato, ma genera discrepanze e conflitti negli appartenenti ai gruppi di status inferiore. Secondo questa teoria, l’incongruenza fra il pensiero di vivere in un sistema giusto e l’appartenere ad un gruppo svantaggiato farebbe abbracciare alle persone una “falsa coscienza” che legittimerebbe la loro inferiorità giustificando la differenza di potere e prestigio fra i gruppi sociali.

Pensando ai nostri moderni “rapper” e “directioner” conosciuti stamattina, quello che da anni viene scritto nelle teorie sull’identità sociale balza agli occhi con  l’entusiasmo tipico degli adolescenti. La fase dell’adolescenza è infatti un momento delicato per la definizione del sé, durante il quale gli aspetti sociali dell’identità rivestono particolare importanza. Negli anni dell’adolescenza infatti il numero delle relazioni dei figli al di fuori dell’ambito familiare aumenta, e acquisisce sempre maggiore importanza il gruppo degli amici. Per gli adolescenti il confronto con il gruppo dei pari è fondamentale, sia per la costruzione di relazioni, che per la definizione di quella fetta dell’identità che ha le sue radici nel contesto sociale: infatti “è attraverso le dinamiche gruppali, che contribuiscono a realizzare i processi di uniformizzazione e di differenziazione, che si costruisce l’identità sociale” (Baldascini 1994). Il gruppo dei pari realizza quei sentimenti di solidarietà che permettono all’adolescente una più libera espressione di sé e forniscono un contesto di benessere affettivo e convalidazione cognitiva, sostegno fondamentale per sviluppare i cambiamenti interni che in questa fase della vita si devono affrontare. (Brown, R. 2000). Il gruppo sostiene l’adolescente durante le trasgressioni delle regole degli adulti, così come lo sostiene nella confusione che è tipica di questo periodo (Baldascini 1994). Anche la Psicologia di comunità ricorda come i gruppi di riferimento siano fondamentali per la costruzione dell’identità e dell’autostima: Brown conferma come l’entrare a far parte di un gruppo comporti forti modifiche nella definizione di sé, e cita la ricerca di Kuhn e McPartland (1954) che dimostrò come i riferimenti gruppali sono presenti nella maggior parte delle risposte che in adolescenza si danno alla domanda “Chi sono io?”.

giovedì 14 febbraio 2013

Condolere


La famiglia e il lutto: effetti immediati e a lungo termine


L’orientamento sistemico-relazionale propone l’immagine di un individuo come un essere sociale il cui comportamento è comprensibile alla luce del sistema di relazioni entro le quali è inserito; viene data molta importanza all’aspetto comunicativo di ogni evento o azione, compreso il manifestarsi di sintomi, i quali vengono interpretati come un segnale di disagio relazionale dell’intera famiglia che sembra comunicare in questo modo l’esistenza di un conflitto tra legami di appartenenza e bisogni di individuazione dei suoi singoli componenti. La “patologia” viene considerata come la risposta ad una fase critica nella vita della famiglia o dell’individuo, in quel momento incapace di usare adeguatamente le proprie risorse. Proprio come le singole persone, anche la famiglia attraversa dei momenti cruciali di cambiamento, che modificano nel tempo le relazioni all’interno del sistema. Secondo Haley (1973), l’individuo e il sistema-famiglia in cui è inserito attraversano delle fasi di cambiamento che l’autore definisce “ciclo di vita”: “Attualmente il fatto che le famiglie vadano incontro a un processo di evoluzione nel corso degli anni e che, quando questo processo viene interrotto, nascano i problemi e i sintomi psichiatrici, sta assumendo sempre maggior evidenza”(Haley, 1973). 

Lavorare con la famiglia e con il suo ciclo di vita presuppone anche il farsi carico di un tema difficile come quello della perdita e del lutto: non esiste famiglia che non abbia subito una perdita, e spesso gli effetti del lutto emergono potenti nella stanza di terapia. Questo mette noi terapeuti di fronte a profonde risonanze: Walsh e McGoldrick definiscono non a caso la morte come “l’ultimo tabù della psicoterapia”, rendendo bene l’idea di quanto sia difficile lavorare su temi così coinvolgenti e dolorosi. Si tende ancora molto a relegare l’elaborazione del lutto a una sfera individuale, senza prendere in considerazione i movimenti e le conseguenze che questi eventi hanno nel sistema-famiglia. Per questo D’Elia (2007), in un lavoro intitolato significativamente “Il lutto non è un fatto privato” dice che “nessuno sopravvive da solo alla morte di una persona cara: il processo di superamento della crisi del lutto comporta una mobilitazione di risorse che si collocano  in un continuum che va dall’individuo alla famiglia, alla comunità, alla società”. 

E’ importante che i terapeuti colgano l’importanza di racconti di eventi luttuosi che vengono minimizzati in terapia (Walsh, 2008), visto che una perdita all’interno della famiglia “è più di un evento”, è un punto di svolta cruciale che mette in discussione le fondamenta della vita familiare. La teoria della Walsh è particolarmente interessante per il sostegno delle famiglie colpite da lutto in quanto incentrata totalmente sul concetto di “resilienza”, cioè la capacità di riprendersi dalle crisi e di superare le difficoltà della vita: non tanto, quindi, il proverbiale “essere forti”, ma l’essere in qualche misura adattabili, capaci di ristrutturare noi stessi e le nostre relazioni di fronte a eventi anche disastrosi. Gli operatori della salute dovrebbero quindi preoccuparsi di attivare la resilienza dei sistemi familiari di fronte ad eventi luttuosi, non tanto la loro resistenza. Per la Walsh, la comunicazione schietta e diretta è un processo fondamentale al fine di attivare processi di resilienza.

Ricordano vari autori, a partire da Freud, che il lutto è un processo riferito spesso non solo a CHI muore, ma anche a COSA quella persona significa per chi resta in vita. È quindi un processo di distacco lento che ha bisogno di grande investimento sul piano personale: l’elaborazione del lutto “non può esser realizzato immediatamente. Esso può essere portato avanti solo poco per volta e con grande dispendio di tempo e di energia d'investimento; nel frattempo l'esistenza dell'oggetto perduto viene psichicamente prolungata. Tutti i ricordi e le aspettative con riferimento ai quali la libido era legata all'oggetto vengono evocati e sovrainvestiti uno a uno, e il distacco della libido si effettua in relazione a ciascuno di essi.” (Freud, 1915).


Oltre a questa dimensione individuale, che vede la persona impegnata a percorrere la propria strada per elaborare quanto accaduto, il sistema familiare vive congiuntamente uno sforzo di costruire una narrazione condivisa dell’evento (Walsh, 2008) che dia un nuovo significato alla morte e “esige che si affrontino le immediate implicazioni dolorose della perdita, tra cui la scomparsa dei sogni relativi a un futuro diverso”. 

Per un intervento di aiuto alla famiglia in fase di lutto è quindi fondamentale ricordare due cose: la prima riguarda il modo in cui questo evento influirà sul sistema familiare, che potrebbe rischiare la rottura, e diventa quindi fondamentale il sistema esterno di sostegno. La seconda cosa riguarda l’espressione del dolore, che avviene sia su un piano individuale che su un piano familiare: sarà fondamentale supportare i membri della famiglia in questo doppio percorso, di riconoscimento delle proprie emozioni e di attenzione alle emozioni altrui (Pereira, 2011). 

In caso di perdite traumatiche il dolore può infrangere la coesione del sistema familiare, allontanando fra sé i vari membri, privandoli del sostegno reciproco. All’interno del lavoro terapeutico nelle famiglie colpite da lutto osserviamo spesso questo elemento nei rapporti con la famiglia estesa o con la rete amicale e sociale. “La morte è un passaggio che fa emergere prepotentemente gli aspetti simbolici dei legami familiari. Essa sollecita i familiari a confrontarsi con l’inevitabilità del distacco e a procedere a un impegnativo lavoro di passaggio” dicono Scabini e Cigoli (2000). La Walsh ci ricorda che la trama della vita familiare a seguito della perdita è fortemente compromessa, ed è necessaria l’attivazione di molte risorse per riorganizzare i ruoli e modulare lo stress e il dolore causato dalla morte.

Poiché spesso si crede che l’esperienza del lutto sia qualcosa da relegare in una sfera individuale e forse come effetto del fatto che la morte è “l’ultimo tabù della terapia”, molte famiglie chiedono aiuto non successivamente a un lutto ma a causa di sintomi tardivi. Può accadere che lutti non elaborati partecipino alle cause sintomatologiche in famiglie che richiedono l’intervento al terapeuta per problemi puntuali emersi anche a distanza di anni dalla perdita. D’Elia (2007)  ci ricorda che in questo caso lo scopo della terapia  è ritornare agli effetti originari della perdita per facilitare una risoluzione delle relazioni passate e riavviare i compiti adattivi, visto che il lutto non è solo un evento puntuale nel tempo ma attiva una dinamica familiare che, se non elaborata, può attraversare anche differenti generazioni (Framo, 1992). 


Bowen teorizza infatti l’esistenza di un’”onda d’urto emotiva” che definisce come “un fitto intreccio di contraccolpi sotterranei costituiti da eventi vitali gravi che possono prodursi ovunque nel sistema familiare esteso nei mesi o negli anni che seguono un evento di grande significato emotivo, di solito dopo la morte […]. Non è direttamente correlata alle reazioni di dolore e di lutto che le persone vicine al morto normalmente hanno. Essa opera sulla base di una rete sotterranea di dipendenza emotiva reciproca fra i membri della famiglia […] I sintomi possono assumere la veste di qualsiasi problema umano, includendo tutta la gamma delle malattie fisiche”.


Haley J. (1973), Terapie non comuni, Casa Editrice Astrolabio, Roma 1976
Freud, S. (1915). Lutto e Melanconia, Vol. VIII, in O.S.F.,. Boringhieri, Torino, 1976
Framo, J. L., Terapia intergenerazionale, Raffaello Cortina Editore, Milano, 1996
Bowen, M., Dalla famiglia all'individuo, Casa Editrice Astrolabio, Roma, 1979
Andolfi, M. D’Elia, A. (a cura di) Le perdite e le risorse dalla famigli, Raffaello Cortina editore Milano, 2007
Scabini, E., Cigoli, V. Il Famigliare. Legami, simboli e transizioni. Raffaello Cortina Editore, Milano, 2000
Walsh, F. La Resilienza familiare, Raffaello Cortina Editore Milano, 2008
Walsh, F.W, Mc Goldrick, M. (a cura di) Living Beyond Loss. Death in the family. Norton and Company, New York 2004



venerdì 8 febbraio 2013

Che c'è di nuovo?

Pubblicato il rapporto Censis "La crescente sregolazione delle pulsioni"

Proprio mentre si sta discutendo su come inserire la dipendenza da internet e da pc all'interno della nuova versione del DSM, il Censis pubblica il rapporto "La crescente sregolazione delle passioni" dove raccoglie la situazione delle dipendenze in Italia.  Oltre a un interessante focus inserito all’interno delle dipendenze da sostanze sull’aumento del consumo di antidepressivi (le dosi definite “giornaliere” appaiono più che raddoppiate passando dal 2001 al 2009 da 16, 2 a 34,7 per 1.000 abitanti), sembrano in crescita anche le forme di dipendenza collocate tra i “disturbi del controllo degli impulsi non classificati altrove” nell'ambito del DSM-IV (Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorder).

Secondo i dati diffusi dall’ AAMS (Amministrazione autonoma dei monopoli di Stato), nel 2010 la raccolta complessiva delle scommesse dei giochi legali è stata di oltre 60 miliardi di euro, contro i 53 dell’anno precedente, mentre uno studio realizzato da Nomisma nel 2007 valutava per quell’anno in poco più di 40 miliardi il volume economico del gioco legale (di questa raccolta il 70% circa viene restituita in vincite). La fattispecie di gioco cui è riconducibile più della metà della spesa sia quella degli “apparecchi”, ossia le slot e le videolotteries, la forma meno relazionale di gioco d’azzardo che richiede un impegno cognitivo basso.

Secondo il Censis, la prevalenza dei giocatori patologici nella popolazione generale adulta varia dall’1% al 3% e sono i maschi ad essere più coinvolti, anche se nel tempo questa differenza tende a diminuire (rapporto M/F da 9:1 a 3:1). Nella popolazione giovanile la prevalenza è maggiore (stimata dal 5 al 6%).

Secondo la Società Italiana di Intervento sulle Patologie Compulsive (S.I.I.Pa.C.) nel 2006 in Italia sono circa 700.000 (l’1,2% della popolazione totale) i soggetti stimati che presentano un problema di gioco d’azzardo patologico. L’85% di questi sono di sesso maschile e quasi l’80% over 40. Tra i giovani di età compresa tra i 13 e i 21 anni i dati parlano del 10% di giocatori problematici e del 5% di patologici.

All’interno di una ricerca svolta nel 2010 dall’associazione 89Rosso e pubblicata nel Quaderno Cesvot n° 52 “Le nuove dipendenze. Analisi e pratiche di intervento” che ha coinvolto 511 giovani delle scuole toscane, l’utilizzo della scala SOGS-RA per il gambling ha permesso di individuare nel campione tre gruppi, suddivisi in base al livello di problematicità circa i comportamenti legati al gioco d’azzardo. Dai risultati è emerso che il 68% dei partecipanti non ha alcun problema rispetto al gioco, il 20% è risultato a rischio ed il 9% ha dichiarato comportamenti che possono indicare una tendenza ad un rapporto con il gioco d’azzardo di tipo problematico.  

Per quanto riguarda la dipendenza da internet, all’interno della stessa ricerca le analisi correlazionali hanno permesso di individuare relazioni abbastanza forti da un punto di vista statistico tra il livello di problematicità dell’utilizzo di internet ed alcune attività specifiche. Un utilizzo maggiore di chat, social network e blog corrispondono infatti a punteggi più elevati nella scala Internet Addiction Test–IAT. Questo risultato sembra far emergere come le funzioni relazionali di internet, oltre ad essere tra le modalità di utilizzo della rete considerate più attrattive dai giovani, sono anche quelle che potrebbero in alcuni casi essere correlate ad un comportamento orientato alla dipendenza. 
E’ stata inoltre rilevata la presenza di una relazione statisticamente significativa tra punteggi elevati sulla scala IAT e minore soddisfazione circa le modalità d’uso del proprio tempo libero fra i ragazzi, mentre è positiva la relazione con l’uso di internet come attività ricreazionale.

martedì 5 febbraio 2013

Rosa Shocking

 Una piccola riflessione sulla criminalità al femminile

 

  
Se si parla di “maschile” e “femminile” non ci si riferisce solo a diversità di sesso, o comunque ascrivibili alla biologia. Il genere e le relazioni ad esso connesse sono fondamentali per ordinare la vita e le istituzioni sociali, ed è nota la disparità con la quale, storicamente, si è costruita l’idea del “maschio” e della “femmina”. Tale discrepanza si osserva in molti campi, ma in ambito criminologico diventa importante evidenziare come quella di genere non sia mai stata considerata una variabile critica per spiegare il fenomeno della criminalità. L’immagine della donna come criminale e come detenuta risulta difficile da registrare: in parte perché quello della devianza al femminile è un mondo abbastanza sconosciuto, e in parte perché quest’idea è dissonante rispetto a tutto ciò che siamo abituati a pensare sul “femminile”. Quindi la realtà delle donne “dietro le sbarre” e le loro storie diventano un panorama nuovo da esplorare  e capire.

I numeri della criminalità e quelli della detenzione differiscono sensibilmente fra uomini e donne, sia per tipologia dei delitti che per modalità di somministrazione ed espiazione della pena: i dati forniti dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria dicono che la percentuale delle donne sulla popolazione totale detenuta al 30 Aprile 2012 era di 2846 unità, intorno al 4,2% del totale. La ristrettezza dei numeri della detenzione femminile quindi, rispetto a quelli più pingui dello stesso problema al maschile, potrebbe in via teorica giustificare la scarsa attenzione al problema della devianza e della criminalità femminile e  la posizione marginale con cui tale questione viene trattata.

Nel corso degli anni si sono date spiegazioni del fenomeno della devianza femminile sempre coerenti con la scuola criminologica in voga. Per il Positivismo, ad esempio, le differenze nei numeri erano da ascriversi a differenze biologiche, che vedevano la donna più debole, meno aggressiva, meno dedita all’alcool. Lo stesso Lombroso scrive:

       In generale, però, la donna antica o selvaggia, come la moderna e civile, benché, come vedemmo, sia più cattiva che buona, commette meno delitti dell’uomo (…) Questo fatto parve a uno di noi così strano, che sospendemmo le ricerche e – prima di passare a studiare la donna delinquente, come uno di noi aveva fatto con l’uomo- ci demmo a cercare quale fosse l’equivalente della delinquenza maschile che ristabilisce anche nel delitto quell’equilibrio tra maschio e femmina che esiste in tutta la scala animale- e lo trovammo nella prostituzione[1]

Nel corso degli anni, le teorie si sono spostate verso spiegazioni multifattoriali e sempre più improntate sulle differenze sociali e psicologiche. La prima scuola fra tutte è quella di Chicago,  nata all’inizio del XX secolo, che sposta il punto di vista da fattori biologici a fattori storici e culturali teorizzando la comunità quale principale elemento di influenzamento degli individui: l’origine della criminalità non si trova più in differenze di natura biologica, ma nel fenomeno della disgregazione sociale. Essendo il comportamento degli esseri umani un prodotto dell’ambiente sociale, la disgregazione dell’ambiente urbano si riflette in particolar modo nelle istituzioni sociali quali la famiglia e i  gruppi di riferimento.

Un’altra teoria è quella dell’associazione differenziale, la quale ipotizza che il comportamento criminale viene appreso come un qualsiasi altro tipo di comportamento, che tale apprendimento ha luogo negli insediamenti sociali e che dall’ambiente a noi prossimo ci trasmette sia i valori guida, che le direttive per il modo di comportarci. Secondo questa teoria, alcuni gruppi sociali hanno valori opposti alle leggi, e per questo motivo presenterebbero tassi più alti di criminalità.

Oggi le teorie della devianza che hanno come fondamento le teorie dell’apprendimento “tutto o nulla” sono superate, l’ottica diventa più complessa e si tende a studiare i contesti in cui le azioni devianti si sviluppano, diviene centrale non  più il soggetto ma l’azione deviante in sé.

Non stupisce quindi che gran parte delle teorizzazioni sulla devianza femminile delle scuole del passato sostenessero che l’impossibilità ad accedere a tutti i mezzi produttivi e di potere fosse in realtà la causa per cui la devianza femminile presentasse numeri più esigui rispetto a quella maschile.

Sia come sia, alle donne è chiuso l’accesso ad una “carriera criminale” tanto quanto ad una carriera conformista, ed esse, cittadini di seconda categoria, risulterebbero anche “criminali di serie B”, la cui azione si esplica in ambienti ed attività circoscritte all’ambito casalingo o, al più, al taccheggio al supermercato[2]
 Tale assunto si ritrova alla base di tutta una serie di teorie che, a partire dagli anni sessanta e settanta, cominciarono a studiare il genere come variabile critica per la spiegazione della criminalità. Tutti questi studi partono appunto dal presupposto che una società di stampo patriarcale come la nostra tende ad assicurare potere agli uomini in tutte le relazioni sociali importanti: alle donne, quindi, viene impedito non solo l’accesso diretto al crimine, ma non si tiene conto di variabili legate al genere neanche al momento dello studio dei fenomeni di devianza. Attualmente, alcuni aspetti di queste teorie suonano un po’ retrò e portano con sé le ideologie del periodo sociale che le ha viste nascere (si pensi alle teorie femministe di stampo marxista, o al femminismo socialista). Altre rimangono attualissime e portano sulla scena problemi ancora irrisolti, o comunque variabili ancora utilizzate per la spiegazione di alcuni tipi di crimini. E’ con le teorie femministe che si parla infatti per la prima volta di paternalismo, inteso come quel tipo di relazioni di potere di cui è imbevuta la società, che hanno radici talmente profonde da giustificare certi rapporti impari giocati dai diversi ruoli.

Un altro stimolo dato dal pensiero femminista in criminologia è la riflessione sul tema della cavalleria: intesa come maniera di praticare il paternalismo, la cavalleria nel sistema penale potrebbe portare ad un diverso trattamento delle donne rispetto agli uomini, e le prime potrebbero beneficiare del fatto che “trattar bene le signore” è un’imposizione sociale,  quindi giudici e polizia non ne sarebbero immuni. Visher, citato da  Williams e Mc.Shane[3], dimostra con i suoi studi che, in caso di arresto o processo, le donne bianche ed anziane che mostrano atteggiamenti deferenti hanno più probabilità di essere trattate con riguardo.

Insomma, la cavalleria funzionerebbe come uno stereotipo, esattamente come accade per l’aggressività: sebbene non sia dimostrato, per così dire, “scientificamente”, che le donne siano meno aggressive degli uomini, è

possibilissimo che atti di sfida o di provocazione commessi da donne e ragazze siano più facilmente giudicati ‘violenti’ che se fossero compiuti da ragazzi, solo perché ci aspettiamo che le ragazze si comportino in modo diverso. Se per esempio ci aspettiamo che le ragazze siano passive e ‘femminili’, quando esse diano l’impressione di voler evadere dal loro stereotipo, le loro azioni appariranno certamente a dir poco sconvenienti e minacciose[4]

Le variabili relazionali e psicosociali possono giocare un ruolo determinante nella questione della criminalità femminile, e in tutti i problemi ad essa connessi: l’idea della delinquente o deviante poco si sposa al ruolo culturale che la società impone alla donna.

       Ma in fondo il crimine è un’attività sociale, benché sui generis, e dunque il minor contributo delle  donne potrebbe ascriversi al diverso inserimento sociale che ostacola allo stesso modo tutte le attività[5]

Anche il problema del maschilismo viene citato dalle teorie di genere in criminologia, per spiegare tutti gli atteggiamenti e le pratiche che hanno l’effetto di produrre disuguaglianze fra i sessi nel trattamento. Le ricerche della De Cataldo Neuburger[6] sui dati raccolti dalle indagini ONU a livello mondiale per il periodo 1970/1989 sottilineano che al momento di analizzare il sesso dei criminali, sono gli stessi Paesi intervistati a chiedersi se il numero esiguo di criminali al femminile non dipenda da sistemi di “filtraggio” che contribuirebbero ad eliminare parte della criminalità femminile dal circuito penale. In realtà, la stessa De Cataldo Neuburger ricorda che esistono Paesi, come la Germania, nei quali l’alta incidenza di crimini femminili ha dato inizio al meccanismo opposto, cioè ad una sorta di accanimento nei confronti della donna che delinque.

Se nel resto d’Europa si parla della criminalità dei “colletti rosa” riferendosi al fatto che l’accesso al crimine sembra essere peculiare di una certa classe sociale, caratterizzata da paghe basse e lavori poco gratificanti[7],  in realtà in società dove l’emancipazione femminile raggiunge numeri più alti non si registra un pari incremento della devianza. Williams e Mc Shane fanno notare infatti come sia l’assenza di opportunità realmente significative a spiegare l’aumento della criminalità: se è vero infatti che la posizione sociale di molte donne sta iniziando a migliorare, il ruolo della donna in famiglia sembra non essersi poi così stravolto. Scrive la Merzagora Betsos:

Se oltre a lavorare fuori casa si è obbligate a fare spesa e bucato, cucinare, accompagnare i bambini a scuola, alle lezioni di danza e karate, badare agli anziani di casa magari non autosufficienti, e andare a ritirare i documenti del marito, non rimangono ne’ tempo ne’ voglia per fare le rapine[8].







[1] Lombroso, C.,Ferrero, G.: La donna delinquente, la prostituta e la donna normale .Fratelli Bocca, Torino 1927 pag. 153
[2] Merzagora Betsos, I. “Demoni del focolare”, Centro Scientifico Editore, Torino 2003 pag. 18
[3]Williams, F. Mc Shane, M. Devianza e Criminalità, Il Mulino, Bologna 2002  pag. 204
[4] Smart, C. Donne,crimine e criminologia,Armando, Roma 1981 pag. 88
[5] Merzagora Betsos, I. “Demoni del focolare”, Centro Scientifico Editore, Torino 2003