venerdì 22 febbraio 2013

Groupies!

L’identità sociale fra “pelle” e “maglietta” nei gruppi di adolescenti


Stamattina insieme ad una collega abbiamo gestito dei laboratori  in una scuola superiore dove eravamo state chiamate per un intervento sulle dinamiche di gruppo nelle classi prime e seconde. La richiesta degli insegnanti che ci hanno commissionato l’intervento era quella di aiutarli nella gestione di alcune criticità e di migliorare la comunicazione all’interno del gruppo di alunni. E’ stato come profondamente interessante osservare le dinamiche di presentazione degli alunni nel gruppo e vedere come nella dimensione della classe venissero giocati differenti aspetti dell’identità sociale: “sono un rapper”, “sono una directioner” (neologismo per i fan di un gruppo musicale), vicini ad alcuni evergreen come “sono un viola” (tifoso della fiorentina), “sono di destra/sinistra”, e così via. Oltre ad averci fatto sentire un po’ agée (ai nostri tempi, tutt’al più, eravamo “sorcini”o “metallari”), questi riferimenti gruppali sono stati l’occasione per una riflessione condivisa su quanto le identità sociali siano in continuo cambiamento, in totale sincronia con i mutamenti sociali che possiamo osservare quotidianamente.

 
Ma perché questa parte della nostra identità che ha le sue radici nei riferimenti gruppali è così importante? Quando si parla di problemi connessi alla formazione di identità, si parte dal presupposto teorico che gli esseri umani definiscono loro stessi anche in base alle caratteristiche dei gruppi di cui fanno parte, e che tendenzialmente tendono a dare di questi gruppi una valutazione positiva, per potersi attribuire gli stessi giudizi favorevoli. Quella parte di sé che deriva dalla conoscenza della propria appartenenza ad un gruppo (o a più gruppi) socialmente individuato, e il significato emotivo riconosciuto a tale esperienza, è stato definito da Tajfel “identità sociale” (1974).
Noi inferiamo giudizi e caratteristiche riferite alla nostra identità anche confrontandoci con i gruppi dei quali facciamo parte. Tajfel e Turner (1979), partendo dal presupposto che i soggetti preferiscano dare un’immagine positiva di sé, ipotizzano che, al momento del confronto, le persone mettano in atto una “specificità positiva”, cioè una distorsione dei risultati o degli eventi al fine di raggiungere una valutazione positiva del proprio gruppo. Questa affermazione ha origine dalla teoria del confronto sociale di Festinger (1957): tendiamo ad attribuire caratteristiche e pregi al nostro gruppo confrontandolo con altri, e l’esito di questo confronto è direttamente connesso alla nostra autostima. Partendo da queste premesse, si comprende come, anche in situazioni di “gruppo minimo” (un gruppo i cui membri non hanno nulla in comune se non l’essere stati scelti dallo sperimentatore), diventi importante per l’autostima dei partecipanti favorire il proprio ingroup.

L’identificazione sociale non può infatti  prescindere dalle valutazioni che vengono attribuite al gruppo (o ai gruppi) al quale tale identità viene ancorata. In alcuni contributi teorici più recenti, soprattutto inerenti la psicologia transculturale, l’identità sociale è stata ulteriormente suddivisa nei concetti di “identità pelle” e “identità maglietta” (Hobsbawm 1996): mentre le prime rimangono stabili (razza, sesso), la maggior parte delle identità collettive si pensano appartenere alla seconda categoria, in quanto sono contestuali e gli individui possono decidere se “indossarle” o meno. Tale ipotesi è congruente con le risposte date alla questione del formarsi dell’identità sociale in contesti oggi sempre più complessi: alcuni studi recenti hanno dimostrato come i confronti sociali tendano infatti a strutturarsi in termini multidimensionali o sulla base di appartenenze multiple.

Se la creazione di identità sociale nasce con il confronto fra quale gruppo ha/è più e quale ha/è meno, si deduce il ruolo saliente che le diversità possono giocare nella formazione di identità sociali. Cosa succede se il confronto sfavorisce il nostro gruppo di appartenenza? La possibilità di uscire dal gruppo, qualora questo non favorisca la creazione di identità positive per gli individui, è possibile se si percepisce una situazione di mobilità sociale, cioè solo nel caso in cui un passaggio ad un gruppo più prestigioso venga percepito dai soggetti come una reale possibilità. In questo caso si manifesta da parte dell’individuo un abbandono reale o simbolico del gruppo. Quando invece l’abbandono non è una strada percorribile, le strategie adottate sono quelle di limitarsi ad effettuare il confronto con gruppi di status simile/subordinato, oppure  abbandonare la competizione.  Le persone appartenenti a gruppi svantaggiati, per mantenere alta la stima di sé, si trovano spesso di fronte alla necessità di difendere o rafforzare la propria identità sociale, a meno che non abbiano interiorizzato la propria situazione di inferiorità: secondo la teoria della “giustificazione del sistema”, infatti, le persone tendono a giudicare il sistema sociale all’interno del quale il proprio gruppo è inserito come giusto, legittimo e desiderabile. La giustificazione del sistema è coerente e priva di conflitti per il gruppo a status più elevato, ma genera discrepanze e conflitti negli appartenenti ai gruppi di status inferiore. Secondo questa teoria, l’incongruenza fra il pensiero di vivere in un sistema giusto e l’appartenere ad un gruppo svantaggiato farebbe abbracciare alle persone una “falsa coscienza” che legittimerebbe la loro inferiorità giustificando la differenza di potere e prestigio fra i gruppi sociali.

Pensando ai nostri moderni “rapper” e “directioner” conosciuti stamattina, quello che da anni viene scritto nelle teorie sull’identità sociale balza agli occhi con  l’entusiasmo tipico degli adolescenti. La fase dell’adolescenza è infatti un momento delicato per la definizione del sé, durante il quale gli aspetti sociali dell’identità rivestono particolare importanza. Negli anni dell’adolescenza infatti il numero delle relazioni dei figli al di fuori dell’ambito familiare aumenta, e acquisisce sempre maggiore importanza il gruppo degli amici. Per gli adolescenti il confronto con il gruppo dei pari è fondamentale, sia per la costruzione di relazioni, che per la definizione di quella fetta dell’identità che ha le sue radici nel contesto sociale: infatti “è attraverso le dinamiche gruppali, che contribuiscono a realizzare i processi di uniformizzazione e di differenziazione, che si costruisce l’identità sociale” (Baldascini 1994). Il gruppo dei pari realizza quei sentimenti di solidarietà che permettono all’adolescente una più libera espressione di sé e forniscono un contesto di benessere affettivo e convalidazione cognitiva, sostegno fondamentale per sviluppare i cambiamenti interni che in questa fase della vita si devono affrontare. (Brown, R. 2000). Il gruppo sostiene l’adolescente durante le trasgressioni delle regole degli adulti, così come lo sostiene nella confusione che è tipica di questo periodo (Baldascini 1994). Anche la Psicologia di comunità ricorda come i gruppi di riferimento siano fondamentali per la costruzione dell’identità e dell’autostima: Brown conferma come l’entrare a far parte di un gruppo comporti forti modifiche nella definizione di sé, e cita la ricerca di Kuhn e McPartland (1954) che dimostrò come i riferimenti gruppali sono presenti nella maggior parte delle risposte che in adolescenza si danno alla domanda “Chi sono io?”.

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