L’identità sociale fra “pelle” e “maglietta” nei gruppi di adolescenti
Stamattina
insieme ad una collega abbiamo gestito dei laboratori in una scuola superiore dove eravamo state
chiamate per un intervento sulle dinamiche di gruppo nelle classi prime e
seconde. La richiesta degli insegnanti che ci hanno commissionato l’intervento era
quella di aiutarli nella gestione di alcune criticità e di migliorare la
comunicazione all’interno del gruppo di alunni. E’ stato come profondamente interessante osservare le dinamiche di presentazione
degli alunni nel gruppo e vedere come nella dimensione della classe venissero
giocati differenti aspetti dell’identità sociale: “sono un rapper”, “sono una directioner”
(neologismo per i fan di un gruppo musicale), vicini ad alcuni evergreen come “sono un viola” (tifoso
della fiorentina), “sono di destra/sinistra”, e così via. Oltre
ad averci fatto sentire un po’ agée
(ai nostri tempi, tutt’al più, eravamo “sorcini”o “metallari”), questi
riferimenti gruppali sono stati l’occasione per una riflessione condivisa su
quanto le identità sociali siano in continuo cambiamento, in totale sincronia
con i mutamenti sociali che possiamo osservare quotidianamente.
Ma
perché questa parte della nostra identità che ha le sue radici nei riferimenti
gruppali è così importante? Quando
si parla di problemi connessi alla formazione di identità, si parte dal
presupposto teorico che gli esseri umani definiscono loro stessi anche in base
alle caratteristiche dei gruppi di cui fanno parte, e che tendenzialmente
tendono a dare di questi gruppi una valutazione positiva, per potersi
attribuire gli stessi giudizi favorevoli. Quella parte di sé che deriva dalla
conoscenza della propria appartenenza ad un gruppo (o a più gruppi) socialmente
individuato, e il significato emotivo riconosciuto a tale esperienza, è stato
definito da Tajfel “identità sociale” (1974).
Noi inferiamo giudizi e caratteristiche riferite alla nostra identità
anche confrontandoci con i gruppi dei quali facciamo parte. Tajfel e Turner
(1979), partendo dal presupposto che i soggetti preferiscano dare un’immagine
positiva di sé, ipotizzano che, al momento del confronto, le persone mettano in
atto una “specificità positiva”, cioè una distorsione dei risultati o degli
eventi al fine di raggiungere una valutazione positiva del proprio gruppo. Questa
affermazione ha origine dalla teoria del confronto sociale di Festinger (1957):
tendiamo ad attribuire caratteristiche e pregi al nostro gruppo confrontandolo
con altri, e l’esito di questo confronto è direttamente connesso alla nostra autostima. Partendo da queste premesse, si comprende come, anche in situazioni di “gruppo minimo”
(un gruppo i cui membri non hanno nulla in comune se non l’essere stati scelti
dallo sperimentatore), diventi importante per l’autostima dei partecipanti
favorire il proprio ingroup.
L’identificazione
sociale non può infatti prescindere
dalle valutazioni che vengono attribuite al gruppo (o ai gruppi) al quale tale
identità viene ancorata. In alcuni contributi teorici più recenti, soprattutto
inerenti la psicologia transculturale, l’identità sociale è stata ulteriormente
suddivisa nei concetti di “identità pelle” e “identità maglietta” (Hobsbawm
1996): mentre le prime rimangono stabili (razza, sesso), la maggior parte delle
identità collettive si pensano appartenere alla seconda categoria, in quanto sono
contestuali e gli individui possono decidere se “indossarle” o meno. Tale
ipotesi è congruente con le risposte date alla questione del formarsi
dell’identità sociale in contesti oggi sempre più complessi: alcuni studi
recenti hanno dimostrato come i confronti sociali tendano infatti a
strutturarsi in termini multidimensionali o sulla base di appartenenze
multiple.
Se
la creazione di identità sociale nasce con il confronto fra quale gruppo ha/è più e quale ha/è meno, si deduce il ruolo
saliente che le diversità possono giocare nella formazione di identità sociali.
Cosa succede se il confronto sfavorisce il nostro gruppo di appartenenza? La
possibilità di uscire dal gruppo, qualora questo non favorisca la creazione di
identità positive per gli individui, è possibile se si percepisce una
situazione di mobilità sociale, cioè solo nel caso in cui un passaggio ad un
gruppo più prestigioso venga percepito dai soggetti come una reale possibilità.
In questo caso si manifesta da parte dell’individuo un abbandono reale o
simbolico del gruppo. Quando invece l’abbandono non è una strada percorribile,
le strategie adottate sono quelle di limitarsi ad effettuare il confronto con
gruppi di status simile/subordinato, oppure
abbandonare la competizione. Le
persone appartenenti a gruppi svantaggiati, per mantenere alta la stima di sé,
si trovano spesso di fronte alla necessità di difendere o rafforzare la propria
identità sociale, a meno che non abbiano interiorizzato la propria situazione
di inferiorità: secondo la teoria della “giustificazione del sistema”, infatti,
le persone tendono a giudicare il sistema sociale all’interno del quale il
proprio gruppo è inserito come giusto, legittimo e desiderabile. La
giustificazione del sistema è coerente e priva di conflitti per il gruppo a
status più elevato, ma genera discrepanze e conflitti negli appartenenti ai
gruppi di status inferiore. Secondo questa teoria, l’incongruenza fra il
pensiero di vivere in un sistema giusto e l’appartenere ad un gruppo
svantaggiato farebbe abbracciare alle persone una “falsa coscienza” che
legittimerebbe la loro inferiorità giustificando la differenza di potere e
prestigio fra i gruppi sociali.
Pensando ai nostri moderni “rapper” e “directioner” conosciuti stamattina, quello che da
anni viene scritto nelle teorie sull’identità sociale balza agli occhi con l’entusiasmo tipico degli adolescenti. La
fase dell’adolescenza è infatti un momento delicato per la definizione del sé, durante
il quale gli aspetti sociali dell’identità rivestono particolare importanza. Negli
anni dell’adolescenza infatti il numero delle relazioni dei figli al di fuori
dell’ambito familiare aumenta, e acquisisce sempre maggiore importanza il
gruppo degli amici. Per gli adolescenti il confronto con il gruppo dei pari è
fondamentale, sia per la costruzione di relazioni, che per la definizione di
quella fetta dell’identità che ha le sue radici nel contesto sociale: infatti
“è attraverso le dinamiche gruppali, che contribuiscono a realizzare i processi
di uniformizzazione e di differenziazione, che si costruisce l’identità sociale”
(Baldascini 1994). Il gruppo dei pari realizza quei sentimenti di solidarietà
che permettono all’adolescente una più libera espressione di sé e forniscono un
contesto di benessere affettivo e convalidazione cognitiva, sostegno
fondamentale per sviluppare i cambiamenti interni che in questa fase della vita
si devono affrontare. (Brown, R. 2000). Il gruppo sostiene l’adolescente
durante le trasgressioni delle regole degli adulti, così come lo sostiene nella
confusione che è tipica di questo periodo (Baldascini 1994). Anche la Psicologia di comunità
ricorda come i gruppi di riferimento siano fondamentali per la costruzione
dell’identità e dell’autostima: Brown conferma come l’entrare a far parte di un
gruppo comporti forti modifiche nella definizione di sé, e cita la ricerca di
Kuhn e McPartland (1954) che dimostrò come i riferimenti gruppali sono presenti
nella maggior parte delle risposte che in adolescenza si danno alla domanda
“Chi sono io?”.
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