martedì 5 febbraio 2013

Rosa Shocking

 Una piccola riflessione sulla criminalità al femminile

 

  
Se si parla di “maschile” e “femminile” non ci si riferisce solo a diversità di sesso, o comunque ascrivibili alla biologia. Il genere e le relazioni ad esso connesse sono fondamentali per ordinare la vita e le istituzioni sociali, ed è nota la disparità con la quale, storicamente, si è costruita l’idea del “maschio” e della “femmina”. Tale discrepanza si osserva in molti campi, ma in ambito criminologico diventa importante evidenziare come quella di genere non sia mai stata considerata una variabile critica per spiegare il fenomeno della criminalità. L’immagine della donna come criminale e come detenuta risulta difficile da registrare: in parte perché quello della devianza al femminile è un mondo abbastanza sconosciuto, e in parte perché quest’idea è dissonante rispetto a tutto ciò che siamo abituati a pensare sul “femminile”. Quindi la realtà delle donne “dietro le sbarre” e le loro storie diventano un panorama nuovo da esplorare  e capire.

I numeri della criminalità e quelli della detenzione differiscono sensibilmente fra uomini e donne, sia per tipologia dei delitti che per modalità di somministrazione ed espiazione della pena: i dati forniti dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria dicono che la percentuale delle donne sulla popolazione totale detenuta al 30 Aprile 2012 era di 2846 unità, intorno al 4,2% del totale. La ristrettezza dei numeri della detenzione femminile quindi, rispetto a quelli più pingui dello stesso problema al maschile, potrebbe in via teorica giustificare la scarsa attenzione al problema della devianza e della criminalità femminile e  la posizione marginale con cui tale questione viene trattata.

Nel corso degli anni si sono date spiegazioni del fenomeno della devianza femminile sempre coerenti con la scuola criminologica in voga. Per il Positivismo, ad esempio, le differenze nei numeri erano da ascriversi a differenze biologiche, che vedevano la donna più debole, meno aggressiva, meno dedita all’alcool. Lo stesso Lombroso scrive:

       In generale, però, la donna antica o selvaggia, come la moderna e civile, benché, come vedemmo, sia più cattiva che buona, commette meno delitti dell’uomo (…) Questo fatto parve a uno di noi così strano, che sospendemmo le ricerche e – prima di passare a studiare la donna delinquente, come uno di noi aveva fatto con l’uomo- ci demmo a cercare quale fosse l’equivalente della delinquenza maschile che ristabilisce anche nel delitto quell’equilibrio tra maschio e femmina che esiste in tutta la scala animale- e lo trovammo nella prostituzione[1]

Nel corso degli anni, le teorie si sono spostate verso spiegazioni multifattoriali e sempre più improntate sulle differenze sociali e psicologiche. La prima scuola fra tutte è quella di Chicago,  nata all’inizio del XX secolo, che sposta il punto di vista da fattori biologici a fattori storici e culturali teorizzando la comunità quale principale elemento di influenzamento degli individui: l’origine della criminalità non si trova più in differenze di natura biologica, ma nel fenomeno della disgregazione sociale. Essendo il comportamento degli esseri umani un prodotto dell’ambiente sociale, la disgregazione dell’ambiente urbano si riflette in particolar modo nelle istituzioni sociali quali la famiglia e i  gruppi di riferimento.

Un’altra teoria è quella dell’associazione differenziale, la quale ipotizza che il comportamento criminale viene appreso come un qualsiasi altro tipo di comportamento, che tale apprendimento ha luogo negli insediamenti sociali e che dall’ambiente a noi prossimo ci trasmette sia i valori guida, che le direttive per il modo di comportarci. Secondo questa teoria, alcuni gruppi sociali hanno valori opposti alle leggi, e per questo motivo presenterebbero tassi più alti di criminalità.

Oggi le teorie della devianza che hanno come fondamento le teorie dell’apprendimento “tutto o nulla” sono superate, l’ottica diventa più complessa e si tende a studiare i contesti in cui le azioni devianti si sviluppano, diviene centrale non  più il soggetto ma l’azione deviante in sé.

Non stupisce quindi che gran parte delle teorizzazioni sulla devianza femminile delle scuole del passato sostenessero che l’impossibilità ad accedere a tutti i mezzi produttivi e di potere fosse in realtà la causa per cui la devianza femminile presentasse numeri più esigui rispetto a quella maschile.

Sia come sia, alle donne è chiuso l’accesso ad una “carriera criminale” tanto quanto ad una carriera conformista, ed esse, cittadini di seconda categoria, risulterebbero anche “criminali di serie B”, la cui azione si esplica in ambienti ed attività circoscritte all’ambito casalingo o, al più, al taccheggio al supermercato[2]
 Tale assunto si ritrova alla base di tutta una serie di teorie che, a partire dagli anni sessanta e settanta, cominciarono a studiare il genere come variabile critica per la spiegazione della criminalità. Tutti questi studi partono appunto dal presupposto che una società di stampo patriarcale come la nostra tende ad assicurare potere agli uomini in tutte le relazioni sociali importanti: alle donne, quindi, viene impedito non solo l’accesso diretto al crimine, ma non si tiene conto di variabili legate al genere neanche al momento dello studio dei fenomeni di devianza. Attualmente, alcuni aspetti di queste teorie suonano un po’ retrò e portano con sé le ideologie del periodo sociale che le ha viste nascere (si pensi alle teorie femministe di stampo marxista, o al femminismo socialista). Altre rimangono attualissime e portano sulla scena problemi ancora irrisolti, o comunque variabili ancora utilizzate per la spiegazione di alcuni tipi di crimini. E’ con le teorie femministe che si parla infatti per la prima volta di paternalismo, inteso come quel tipo di relazioni di potere di cui è imbevuta la società, che hanno radici talmente profonde da giustificare certi rapporti impari giocati dai diversi ruoli.

Un altro stimolo dato dal pensiero femminista in criminologia è la riflessione sul tema della cavalleria: intesa come maniera di praticare il paternalismo, la cavalleria nel sistema penale potrebbe portare ad un diverso trattamento delle donne rispetto agli uomini, e le prime potrebbero beneficiare del fatto che “trattar bene le signore” è un’imposizione sociale,  quindi giudici e polizia non ne sarebbero immuni. Visher, citato da  Williams e Mc.Shane[3], dimostra con i suoi studi che, in caso di arresto o processo, le donne bianche ed anziane che mostrano atteggiamenti deferenti hanno più probabilità di essere trattate con riguardo.

Insomma, la cavalleria funzionerebbe come uno stereotipo, esattamente come accade per l’aggressività: sebbene non sia dimostrato, per così dire, “scientificamente”, che le donne siano meno aggressive degli uomini, è

possibilissimo che atti di sfida o di provocazione commessi da donne e ragazze siano più facilmente giudicati ‘violenti’ che se fossero compiuti da ragazzi, solo perché ci aspettiamo che le ragazze si comportino in modo diverso. Se per esempio ci aspettiamo che le ragazze siano passive e ‘femminili’, quando esse diano l’impressione di voler evadere dal loro stereotipo, le loro azioni appariranno certamente a dir poco sconvenienti e minacciose[4]

Le variabili relazionali e psicosociali possono giocare un ruolo determinante nella questione della criminalità femminile, e in tutti i problemi ad essa connessi: l’idea della delinquente o deviante poco si sposa al ruolo culturale che la società impone alla donna.

       Ma in fondo il crimine è un’attività sociale, benché sui generis, e dunque il minor contributo delle  donne potrebbe ascriversi al diverso inserimento sociale che ostacola allo stesso modo tutte le attività[5]

Anche il problema del maschilismo viene citato dalle teorie di genere in criminologia, per spiegare tutti gli atteggiamenti e le pratiche che hanno l’effetto di produrre disuguaglianze fra i sessi nel trattamento. Le ricerche della De Cataldo Neuburger[6] sui dati raccolti dalle indagini ONU a livello mondiale per il periodo 1970/1989 sottilineano che al momento di analizzare il sesso dei criminali, sono gli stessi Paesi intervistati a chiedersi se il numero esiguo di criminali al femminile non dipenda da sistemi di “filtraggio” che contribuirebbero ad eliminare parte della criminalità femminile dal circuito penale. In realtà, la stessa De Cataldo Neuburger ricorda che esistono Paesi, come la Germania, nei quali l’alta incidenza di crimini femminili ha dato inizio al meccanismo opposto, cioè ad una sorta di accanimento nei confronti della donna che delinque.

Se nel resto d’Europa si parla della criminalità dei “colletti rosa” riferendosi al fatto che l’accesso al crimine sembra essere peculiare di una certa classe sociale, caratterizzata da paghe basse e lavori poco gratificanti[7],  in realtà in società dove l’emancipazione femminile raggiunge numeri più alti non si registra un pari incremento della devianza. Williams e Mc Shane fanno notare infatti come sia l’assenza di opportunità realmente significative a spiegare l’aumento della criminalità: se è vero infatti che la posizione sociale di molte donne sta iniziando a migliorare, il ruolo della donna in famiglia sembra non essersi poi così stravolto. Scrive la Merzagora Betsos:

Se oltre a lavorare fuori casa si è obbligate a fare spesa e bucato, cucinare, accompagnare i bambini a scuola, alle lezioni di danza e karate, badare agli anziani di casa magari non autosufficienti, e andare a ritirare i documenti del marito, non rimangono ne’ tempo ne’ voglia per fare le rapine[8].







[1] Lombroso, C.,Ferrero, G.: La donna delinquente, la prostituta e la donna normale .Fratelli Bocca, Torino 1927 pag. 153
[2] Merzagora Betsos, I. “Demoni del focolare”, Centro Scientifico Editore, Torino 2003 pag. 18
[3]Williams, F. Mc Shane, M. Devianza e Criminalità, Il Mulino, Bologna 2002  pag. 204
[4] Smart, C. Donne,crimine e criminologia,Armando, Roma 1981 pag. 88
[5] Merzagora Betsos, I. “Demoni del focolare”, Centro Scientifico Editore, Torino 2003







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