martedì 29 ottobre 2013

Le nuove dipendenze. Analisi e pratiche di intervento.

Quaderno Cesvot n°52 sul tema delle nuove dipendenze


Ciascuno di noi ha una propria immagine che associa alla parola “dipendenza”: ci possono venire in mente scene del film “Trainspotting”, qualche frase del libro “Noi, i ragazzi dello zoo di Berlino”, oppure immagini televisive che raccontano di marginalità e esclusione. L’immaginario collettivo sul tema della dipendenza è ricco e variegato, e fino a qualche anno fa quando si parlava di “dipendenze” ci si riferiva esclusivamente a comportamenti associati all'uso di sostanze.

Il termine “dipendenze” viene oggi sempre più associato all'aggettivo “nuovo”, per delineare alcuni comportamenti o abitudini, spesso legati a contesti socialmente accettati, dei quali non possiamo fare a meno: lo shopping, il gioco, la navigazione su internet, sono solo alcuni esempi, anche se molto significativi.  Le “nuove dipendenze”, non a caso chiamate anche “dipendenze sociali”, fanno riferimento a comportamenti comuni, spesso anche incentivati, che non presentano caratteristiche di illegalità o trasgressività: questo le rende ancora più “subdole” e spesso di difficile individuazione rispetto alle dipendenze da sostanze.  Gli alti costi sociali e sanitari che si stanno affrontando a causa dell’emergere di queste nuove tipologie di dipendenze hanno portato il tema all'attenzione di ricercatori, servizi e opinione pubblica, attivando una serie di progetti di prevenzione o intervento.

Vista la rilevanza dell’argomento e l’importanza di attivare progetti di prevenzione, soprattutto fra gli adolescenti, la Regione Toscana, sul bando “Contributi regionali per la promozione della cultura della legalità democratica (L.R. 11/99”) – Anno 2009, ha finanziato il progetto “Scommetti che t’impegni?” gestito da un partenariato di associazioni e scuole al quale ho partecipato come socia dell'associazione 89rosso. L’obiettivo generale del progetto svoltosi nell'anno scolastico 2009-2010, è stato quello di sensibilizzare giovani e adulti rispetto al tema delle vecchie e nuove dipendenze, stimolando l’impegno personale e sociale come promozione di una cultura responsabilizzante.
Questi obiettivi sono stati raggiungi attraverso lo sviluppo di una ricerca-azione e grazie a interventi educativi mirati all'interno delle scuole, favorendo un uso consapevole del denaro, del gioco e di internet e attivando interventi di prevenzione mirati. I risultati della ricerca azione, assieme a altri contributi teorici di rilievo, saranno pubblicati dal Cesvot all'interno del Quaderno n°52 "Le nuove dipendenze. Analisi e pratiche di intervento" curato da Valentina Albertini e Francesca Gori (Vai al Quaderno Cesvot)
Abbiamo ritenuto infatti fondamentale diffondere informazioni sul tema delle nuove dipendenze fra le associazioni di volontariato, in quanto spesso proprio il volontariato si trova a operare in contesti di presa in carico di persone che presentano problemi connessi a questo tema.

Vai al numero di Pluraliweb dedicato alle Nuove Dipendenze 

Che cosa possono dirci le neuroimmagini sulla mente umana?

Seminario con Carlo Umiltà e Giovanni Galfano 

Sabato 16 Novembre 2013 h 10:00-18:30 
sede C.S.A.P.R.
Viale Vittorio Veneto, 78 - 59100 Prato


Neuroeconomia, neuromarketing, neuroestetica, neuroteologia...: si affacciano oggi sulla scena nuove e 
sempre più fantasiose discipline frutto del cortocircuito tra saperi antichi e scoperte recenti sul 
funzionamento del cervello. Sui media proliferano articoli divulgativi, corredati da foto a colori del cervello, che ci mostrano il luogo preciso dove si sviluppa un certo pensiero o una certa emozione, facendoci credere che sia possibile vedere direttamente, senza mediazioni, il cervello al lavoro. Ma le cose stanno veramente così? 
Il seminario affronterà alcuni luoghi comuni associati alla relazione mente-corpo, cervello-psiche, 
natura-cultura, mettendoci in guardia dalle ricadute culturali che un uso distorto delle possibilità aperte dalle 
nuove e potenti tecnologie di neuroimmagine può comportare.

Lo sguardo degli altri è uno stimolo molto importante nella vita quotidiana in quanto fornisce informazioni
che possono aiutarci a inferire la presenza nell’ambiente di stimoli potenzialmente interessanti o minacciosi
al di fuori del nostro fuoco attentivo. E’ ormai noto che la nostra attenzione è particolarmente sensibile alla
direzione dello sguardo altrui. Infatti, quando fissiamo il volto di una persona che repentinamente sposta gli
occhi verso la periferia del campo visivo, tendiamo a spostare la nostra attenzione nella stessa direzione. A
dispetto della natura fortemente sociale dello stimolo “sguardo” e di altri stimoli con i quali entriamo in
contatto quotidianamente, per anni la psicologia cognitiva ha colpevolmente trascurato le possibili
interazioni fra orientamento dell’attenzione e stimoli sociali. Scopo del seminario è illustrare le ricerche più
recenti condotte per cercare di colmare questa lacuna. L’obiettivo è quello di dimostrare l’importanza e
l’utilità di un approccio interdisciplinare per un più proficuo studio dei processi cognitivi e per aumentare le
potenziali ricadute applicative (anche e soprattutto in ambito clinico) delle ricerche condotte nel contesto
della psicologia sperimentale.

lunedì 7 ottobre 2013

Compagni di scuola




La mediazione linguistico-culturale in ambito scolastico

 Nell’ambito della psicologia sociale e di comunità, varie ricerche coincidono nell’affermare che la scuola rappresenta il nodo centrale per l’integrazione della popolazione immigrata di più giovane età. Recentemente, alcune ricerche in ambito nazionale hanno dimostrato come enti quali la scuola rivestono un ruolo fondamentale per determinare l’esito del percorso di integrazione di bambini ed adolescenti (Pomicino, Romito, Paci 2008). 

In età adulta, l’esperienza di immigrazione può comportare quello che viene definito stress da transuculturazione: repentini cambiamenti di ambiente ed abitudini di vita che coinvolgono sia gli aspetti strutturali, che quelli processuali dell’identità. Queste difficoltà possono venire ampliate se l’esperienza migratoria viene vissuta nelle fasi dell’infanzia e dell’adolescenza, momenti fondamentali per la costruzione e la strutturazione identitaria. 

Inoltre, anche per i figli di migranti nati in Italia, il processo di costruzione dell’identità è comunque più complesso, mancando un “prima” e un “dopo” che riescano a definire il proprio passato e il proprio futuro. Se i genitori  migranti hanno, infatti, una solida identificazione con la loro cultura di origine che li lega alla propria storia, oltre ad un progetto migratorio definito che rappresenta il loro futuro, ai loro figli manca spesso questo “ieri” e questo “domani”: non hanno un riferimento al passato, e il loro futuro è più incerto di quello della generazione precedente (Mazzetti 2003). In questo processo dinamico di costruzione di identità e sostegno, è importante quindi pensare la scuola come uno dei supporti fondamentali, un luogo dove i bambini e gli adolescenti stranieri possano “ricucire lo strappo fra il dopo e il prima”:

 

per il recupero delle loro radici hanno bisogno di riconoscerne il valore. È possibile agevolarli creando un’atmosfera di rispetto e di valorizzazione per la loro terra di origine […]. Perché si sentano di appartenere all’Italia, bisogna aiutarli a costruirsi un nuovo progetto di vita qui, a costruire fantasie su come saranno da grandi nella nuova patria. E per rammendare lo “strappo” tra il dopo e il prima, occorre aiutarli a ricostruire una storia i cui vari elementi della loro biografia, ma anche quella dei loro familiari, trovino un senso reciproco, e si uniscano qui nel presente (Mazzetti 2003, pag. 167)

La scuola, inoltre, rappresenta un punto di incontro e inclusione importante non solo per i figli: la riuscita e il benessere scolastico sono stati considerati da alcuni autori come indicatori significativi dell’adattamento al Paese ospitante della famiglia nel suo complesso (Portes, Rumbaut 1990; Mancini, Secchiamoli 2003). Inoltre, da un lavoro che ha coinvolto genitori italiani, genitori stranieri e insegnanti in alcune scuole di Milano è stato sottolineato come nei contesti scolastici le relazioni fra italiani e migranti, sia quelle che riguardano i bambini che quelle relative ai genitori, vengano vissute in maniera poco problematica, a differenza di quanto accade ad esempio nei quartieri di residenza, dove le relazioni fra cittadini autoctoni e migranti sono vissute in maniera più complessa e conflittuale (Brunazzi, Marando, Colombo 2008).

Sulla scuola gravano quindi aspettative elevate rispetto al tema dell’accoglienza degli alunni (e, indirettamente, delle famiglie) stranieri. A fronte del pregiudizio per il quale questa professione è stata sempre considerata “soft”, l’insegnamento è oggi diventato molto più problematico rispetto a quanto sia mai stato nel passato. In una ricerca che ha analizzato le due microaree della professione, cioè quella didattica-educativa e quella socio-relazionale, è stato sottolineato come, accanto a programmi didattici sempre più dettagliati e alla realizzazione di progetti in orario extra scolastico, sia cambiato profondamente il modo degli alunni e delle famiglie di relazionarsi alla scuola: agli insegnanti viene richiesta una maggiore capacità di lavorare in rete con i colleghi, di relazionarsi con le famiglie, e di affrontare i problemi dei cambiamenti delle classi dovuti all’aumento di alunni stranieri (Giusino, Arcuri, Novara 2008). Tali modifiche rendono oggi al professione dell’insegnamento una delle più esposte a rischio burnout. Una efficace preparazione del personale docente può favorire i processi di integrazione degli alunni stranieri: la scuola rischia però di divenire un contenitore sul quale si concentrano elevate aspettative senza che vengano realmente dati a docenti, personale ATA, dirigenti, i reali strumenti e le risorse utili a una gestione produttiva delle difficoltà derivate dalla presenza di bambini stranieri. 
 
Esiste un interessante studio condotto su un gruppo di 182 insegnanti della scuola dell’obbligo rispetto al tema della scuola multiculturale (Francani, 2004 citato in Mancini 2006). Da questa ricerca emerge il quadro di una scuola a volte impreparata a gestire tutti i problemi che la presenza di alunni stranieri comporta per il sistema scolastico: circa un terzo degli insegnanti intervistati si dichiara ottimista rispetto all’integrazione scolastica, mentre quasi 4 su 10 appaiono scettici, mostrando una visione assimilazionista della società. Ma il dato maggiormente preoccupante riguarda quei 3 insegnanti su 10 che si dichiarano intolleranti sia nei confronti dell’integrazione che rispetto alla presenza di alunni stranieri, considerati una delle cause di peggioramento della scuola italiana.
Al di là delle complesse problematiche che la pedagogia interculturale comporta, da un punto di vista psicosociale viene sottolineata la carenza di ricerche volte a verificare se e in quale misura l’atteggiamento degli insegnanti incida sulle modalità con le quali bambini e adolescenti migranti “negoziano” gli aspetti etnico-culturali della loro identità (Mancini 2006). Questo problema cruciale diviene il collegamento ideale per inserire il tema della mediazione linguistico-culturale nella scuola: in un lavoro del 1998 svolto nel Comune di Bologna veniva infatti sottolineato come una importante funzione del mediatore a scuola fosse quella di “rinforzo dell’autostima e dell’identità” dei bambini stranieri. I bambini sembrano infatti vedere il mediatore come “uno di loro”, che però sta al di là della cattedra (Tarozzi, 2006).

È partendo da queste premesse che ci siamo avvicinati al tema della mediazione interculturale nella scuola, tenendo cioè in profonda considerazione la difficoltà relazionale che comporta gestire da un lato una classe dove sono presenti alunni stranieri, e dall’altro, la complessità del processo di integrazione. Nel corso del 2009 abbiamo svolto all’interno di un progetto finanziato dalla Comunità europea un’indagine sulla percezione dell’utilità della mediazione linguistico-culturale nel sistema scolastico. L’intera ricerca è stata pubblicata nel Quaderno Cesvot n°47 dal titolo “La mediazione linguistico-culturale. Stato dell’arte e potenzialità”. 
 
È interessante notare come, secondo quanto espresso dai partecipanti ai focus group portati avanti all'interno del progetto, la mediazione linguistico-culturale nella scuola sia percepita come un’attività molto più complessa di quanto non sembri ad un primo sguardo: la mediazione  non è più vista come scambio e facilitazione alunno-insegnate, ma appare come uno strumento da utilizzare all’interno della rete più ampia e di un sistema che coinvolge sia l’istituzione scolastica, che la famiglia, che il territorio di riferimento.

Nelle nostre interviste  emerge come una criticità significativa il problema della delega impropria da parte delle famiglie e dei docenti nei confronti dei mediatori. Alcuni autori hanno sottolineato come questo rischio fosse diminuito negli ultimi anni grazie a una maggiore definizione del ruolo e della funzione dei mediatori:

più in generale rispetto al rischio di delega eccessiva che riscontravo nella ricerca di dieci anni fa, l’affermazione e il riconoscimento diffuso di questa figura ha fatto sì che le aspettative eccessive restino, ma la delega forse no. Anzi si registra sempre più spesso da un lato il rifiuto da parte di certe famiglie di accettare l’intervento di un mediatore culturale percepito come un invadente strumento di assimilazione, e, dall’altro, un controllo più serrato del suo operato da parte degli insegnanti che pure lo impiegano ma tendono a non delegargli troppe funzioni (Tarozzi 2006)

Nel caso dei nostri insegnanti e formatori questa percezione non coincide: nell’intervista emerge invece come l’attivazione di un mediatore per una classe possa rappresentare una richiesta di supporto nella gestione dell’aula: si corre il rischio di incorrere in un processo di delega per cui il mediatore diventa una sorta di “insegnante di sostegno” per gli alunni stranieri, una sorta di “enzima” al quale viene chiesto di velocizzare il processo di inserimento senza in realtà coinvolgere il sistema-scuola nel suo insieme.

L'imagine pubblicata in questo post è di proprietà della Rivista Pluraliweb di Cesvot.

martedì 1 ottobre 2013

CSPR Prato- Master in Psicoterapia Relazionale Sistemica

Il CSAPR Centro Studi Applicazione Psicologia Relazionale di Prato organizza per il biennio 2014-2015 il Master in Psicoterapia Relazionale Sistemica per Psicologi e Medici già in possesso dell'abilitazione all'esercizio dell'attività psicoterapeutica.

L'inizio del Master è previsto per Febbraio 2014


Tutti i dettagli sulla struttura del corso, sulle modalità di iscrizione, su costi, possono essere richiesti all'indirizzo:
 
segreteria@csapr.it



Con l'occasione pubblico alcuni video inseriti su You tube alcune delle interviste fatte all'apertura del Congresso della SIPPR di Marzo 2013 da Elisangelica Ceccarelli per TVR-Teleitalia 7 Gold:






giovedì 19 settembre 2013

II CONVEGNO GIOVANI S.I.P.P.R.

L'approccio sistemico relazionale ed i suoi contesti di applicazione

Sabato 22 Febbraio 2014 a Milano si terrà un Convegno Speciale S.I.P.P.R.  dei Soci Clinici e Didatti iscritti negli ultimi sei anni e/o di età  inferiore ai 42 anni.

I Soci che desiderino presentare il proprio contributo, dovranno inviare  un abstract a infoconvegni@sippr.it, compilando il form scaricabile dal sito www.sippr.it. Il materiale degli abstract va inviato entro e non oltre il 31 Ottobre  2013.

La partecipazione sarà interamente gratuita sia per i relatori sia per i  Soci SIPPR in regola con le quote sociali, sia per gli studenti delle scuole di specializzazione che universitari. Agli iscritti esterni verrà richiesta una quota di iscrizione di euro 30 + IVA.

Ai fini organizzativi, per le iscrizioni è necessario rivolgersi a

CENTRO PANTA REI    Via Omboni, 7  -  20129   Milano
E-mail: pantarei@centropantarei.it
Tel/Fax 02. 29523799

martedì 27 agosto 2013

Con la sola imposizione delle mani....



Lo psicologo relazionale e le richieste magiche del sistema scuola



Al Congresso SIPPR che si è svolto a Prato dal 7 al 9 Marzo 2013 insieme ad alcune colleghe abbiamo presentato un intervento sulle richieste ambigue del sistema-scuola nei confronti dello psicologo. Lavorando all’interno delle scuole capita infatti di ricevere richieste impossibili, che possono mettere alla prova le nostre competenze ed esporre i nostri interventi a rischio di fallimento. Come svelarle, rispondere ed intervenire? La formazione sistemico relazionale rafforza ed arricchisce la possibilità di riformulare la domanda e ipotizzare l'intervento nell’ambito lavorativo non terapeutico,  come ad esempio le richieste di intervento psicologico da parte degli Istituti Scolastici. Possiamo concepire, infatti, la scuola come un insieme di diversi livelli che hanno ruoli, funzioni, stili comunicativi diversi gli uni dagli altri: un sistema complesso costituito da soggetti diversi per età, ruolo, competenze e professionalità, la cui convivenza non sempre risulta semplice e da cui emergono differenti e diversificate domande di cambiamento più o meno consapevoli e paradossali.


Nel corso degli anni di pratica professionale è stato possibile rispondere a diverse richieste di intervento partendo dall’analisi e dalla riformulazione della domanda per la realizzazione di interventi. La complessità del sistema scolastico e la “bizzarria” delle richieste ingenue e oscure allo stesso tempo, ha rappresentato una sfida nel mantenere una posizione ed una competenza professionale per garantire un intervento il più possibile valido ed efficace. Nel lavoro da noi presentato al Congresso SIPPR abbiamo riportato alcuni aneddoti esplicativi e rappresentato alcune situazioni realmente incontrate sul campo cogliendone gli aspetti paradossali ed inserendoli in una riflessione rispetto alla natura di un intervento sistemico in un contesto non terapeutico.

Lo psicologo a scuola: dove quando e perchè

La nostra presenza a scuola si configura come quella di consulenti esterni: spesso lo psicologo non trova, infatti, posto nell'organigramma della scuola ed è presente come libero professionista o appartenente ad enti, associazioni ed istituzioni del territorio. Tale condizione di “senza ruolo  espone alle aspettative irrealistiche di coloro che si trovano in situazioni di disagio e all’attribuzione irrazionale di competenze ed abilità, fino ad arrivare ad aspetti taumaturgici: ci è infatti capitato di essere state fermate nei corridoi dell’istituto ricevendo affettuosi complimenti da parte di un’insegnante per l’efficacia del nostro intervento in 1 C… classe nella quale non eravamo neanche entrate!

Generalmente chi contatta lo psicologo a scuola, presidi e insegnanti, propone “casi” affinché il consulente intervenga direttamente o fornisca “consigli terapeutici” o  facili ricette. Il richiedente appare come “diagnosta” o “terapeuta impotente  (Palazzoli, 1976). A volte la posizione di aspirante “terapeuta” dell’insegnante emerge con ingenuità "Dottoressa, ma davvero vengono a parlare con lei??? Eppure mi sembra così strano, visto che ci sono io che ci parlo tanto...“ , non senza punte di competizione e rivalità.

Nella nostra esperienza la maggior parte delle richieste di intervento fatte da singoli o da piccoli gruppi di insegnanti mirano prevalentemente ad una presa in carico di un “allievo-classe problema”: una vera e propria delega del problema (e quindi della sua risoluzione, ma senza risorse, tempi e “potere”) allo specialista venuto da fuori con l’attribuzione dei fattori di disagio a cause esterne all’ambiente scolastico. E’ necessario passare dalla ricerca di cause del disagio esterne alla scuola all’identificazione e all'analisi dei processi interattivi in atto all'interno della classe o dell’istituto che favoriscono lo sviluppo di situazioni di malessere, o che contribuiscono a renderle croniche. La scuola non è impermeabile a quanto succede nel contesto sociale e familiare; tuttavia un intervento focalizzato esclusivamente questi fattori esterni è destinato a fallire.

Lo scenario che si prefigura quando riceviamo una richiesta è quello di interventi di tipo:
  1. VALUTATIVO-GIUDIZIARIO: in cui veniamo chiamati per esaminare i casi di alunni problematici o classi problematiche spesso in sedi di decisioni su bocciature o sospensioni. Ad esempio:  “Dottoressa può fare un intervento in I k, così si rende conto della situazione”
  2. TERAPEUTICO es. La professoressa ci presenta alla classe “Buongiorno ragazzi, questa è la psicologa, starà qui con voi per capire che problemi avete e per curarvi”
  3. CONSULENZA PEDAGOGICA es.“Dottoressa, ci insegni a dare le regole"

Per effettuare il nostro intervento è necessario passare da interventi valutativi-terapeutici-pedagogici alla costruzione di un contesto collaborativo. Ogni volta che ci siamo confrontate con un problema, è stato importante procedere con un’ attenta analisi della domanda, interrogandoci sui tentativi di soluzioni adottate. È diventata prassi quella di collocare la segnalazione di un caso di un alunno o di un gruppo classe fatta da un insegnante nel più ampio contesto del consiglio di classe: per ridefinire la situazione come una specifica disfunzione di persone che comunicano con persone e non attraverso una punteggiatura arbitraria. L’obiettivo dello psicologo relazionale a scuola è, infatti, costruire un intervento che, come avviene nella terapia della famiglia, utilizzi le informazioni, stabilendo fra esse collegamenti diversi, con l'aiuto e la collaborazione dei membri del sistema scolastico e di quello familiare laddove possibile, per giungere a una nuova struttura di connessione che sia plausibile e che offra allo stesso tempo una visione alternativa nuova e convincente della realtà.

martedì 25 giugno 2013

Fra il vecchio e il nuovo /3



Una breve definizione di "nuove dipendenze"


Per “new addictions” si intendono alcune nuove tipologie di dipendenze nelle quali non è implicato il coinvolgimento di sostanze chimiche, ma l’oggetto della dipendenza è un comportamento o un’attività lecita o socialmente accettata come lo shopping, il gioco d’azzardo, l’utilizzo di Internet, il lavoro, il sesso, le relazioni sentimentali.
Le nuove dipendenze, o dipendenze sociali (senza sostanza) si manifestano nell’urgente necessità di dover praticare un’attività, di dover mettere in atto un comportamento per trovare immediata soddisfazione ad un bisogno. Per questo, anche se non vi è assunzione di sostanze chimiche, il quadro fenomenologico è molto simile e, anzi, sembra essere per certi versi ancora più subdolo di quello delle dipendenze da sostanza. Se da una parte vengono messi in atto comportamenti che producono le stesse conseguenze delle cosiddette tossico-dipendenze, ossia l'escalation, la tolleranza e l'astinenza (dimostrando come il meccanismo psicologico delle dipendenze sia sempre lo stesso), dall'altra le dipendenze senza sostanza hanno a che fare con comportamenti, abitudini, usi del tutto legittimi e socialmente incentivati, basti pensare al consumo e all'uso di tecnologie informatiche o al fatto di fare shopping.
Si parla infatti di “dipendenze sociali”, come sottolineano Lavanco e Croce (2008):

perchè non si collocano nella dimensione della trasgressione, del vietato, del disapprovato, ma nascono e si costruiscono nella quotidianità perdendo quindi sia la dimensione del lecito e dell'illecito e con essa più facilmente anche quella del limite, tra “ciò che fa bene e ciò che fa male”.

Un altro aspetto rilevante è che appare difficile trovare elementi visibili di emarginazione e di rischio sociale nelle persone coinvolte in questo tipo di problemi, quali segnali premonitori o indicatori di disagio, di sofferenza. La possibilità di dipendenza sembra così una condizione di rischio sociale aperta ad ognuno di noi. Questo ci porta, quindi, a mettere in discussione anche molti degli elementi cardine legati alla prevenzione ed alla cura. E' infatti ancora possibile perseguire la logica dell'evitamento e dell'astinenza nel caso di questo tipo di dipendenze? Perchè se è certo che si possa vivere senza droghe, non è certo pensabile che oggi si possa vivere senza comprare, senza internet e così via. Basti pensare all’uso massiccio della pubblicità nei mezzi di comunicazione che incentiva all’acquisto, al gioco, al consumo, e alla grande utilità di internet.

Le forme di dipendenza sociale si rivelano così a-sociali nelle conseguenze e nei costi dovuti alla progressiva chiusura individuale, alla ripetizione coatta dei comportamenti di addiction, alle conseguenze sui piani familiare e lavorativo ed alla perdita di capitale sociale e di senso ed investimento nella comunità.
Come evidenzia bene Steiner (1993) le dipendenze, comprese quelle sociali, diventano “dei rifugi della mente, ovvero i luoghi mentali in cui ritirarsi quando si desidera sfuggire ad una realtà insostenibile perchè angosciosa” (Lavanco e Croce, 2008). 

Le nuove dipendenze sembrano l’espressione di una stagione culturale nella quale i fenomeni dell’abuso e della dipendenza appaiono contrassegnati più dal “buon funzionamento performativo” e dal bisogno di normalità che dall’immaginario della protesta, della marginalità o del disagio, legato all’uso e/o abuso di sostanze. L’uso di sostanze nella nostra società pare supportare la necessità di mantenere elevati livelli di vigilanza e di energia, come in una condizione stabile di ipomaniacalità, e di attutire così sentimenti di frustrazione, delusione, depressione, insoddisfazione che non si è più in grado di gestire (La Barbera, Sideli, 2008).
L’area delle nuove dipendenze rappresenta, quindi, un terreno di studio nel quale vengono a confluire aspetti di ordine sociale e culturale, insieme ad aspetti di ordine psicopatologico e clinico: un tentativo disfunzionale di dare risposta a specifici fattori evolutivi (Lavanco e Croce 2008).

mercoledì 5 giugno 2013

Mal-accetto


La Sclerosi Multipla e il lavoro psicologico


Si è appena conclusa al settimana durante la quale l’Aism, Associazione Italiana Sclerosi Multipla, ha organizzato a livello territoriale dei convegni informativi in occasione della Giornata Mondiale della Sclerosi Multipla (29 Maggio).

Durante questi giorni ho partecipato a diversi eventi organizzati dalle sezioni locali di Aism e la domanda che mi accompagna da quando lavoro con persone che hanno SM si è fatta ancora più presente.
La maggior parte dei pazienti che vengono a chiederci aiuto partono infatti da una richiesta, forse semplice a livello verbale, ma che nasconde tutta una serie di delicate sfumature e apre ad una serie di parentesi che rendono difficile dare una risposta.
Capita infatti che le persone con sclerosi chiedano “Come faccio a sapere se ho accettato questa malattia?”.  

La sclerosi multipla (SM), o sclerosi a placche, è una malattia autoimmune a decorso cronico della sostanza bianca del sistema nervoso centrale. Nella sclerosi multipla si verificano un danno e una perdita di mielina in più aree (da cui il nome «multipla») del sistema nervoso centrale. Queste aree di perdita di mielina sono di grandezza variabile e prendono il nome di placche. Alla base della SM dunque vi è un processo di demielinizzazione che determina danni o perdita della mielina e la formazione di lesioni (placche) che  possono evolvere da una fase infiammatoria iniziale a una fase cronica, in cui assumono caratteristiche simili a cicatrici, da cui deriva il termine «sclerosi».

Nel mondo, si contano circa 2,5-3 milioni di persone con SM, di cui 450.000 in Europa e circa 65.000 in Italia. La SM può esordire a ogni età della vita, ma è diagnosticata per lo più tra i 20 e i 40 anni e nelle donne, che risultano colpite in numero doppio rispetto agli uomini. La SM è complessa e imprevedibile, ma non riduce l’aspettativa di vita, infatti la vita media delle persone ammalate è paragonabile a quella della popolazione generale. (Fonte: sito www.aism.it)

Di fronte ad una diagnosi e alla successiva convivenza con una malattia così complessa le reazioni emotive possono essere molteplici. Il sito web dell’Aism segnala che le  principali problematiche di natura psicologica correlate con la SM sono i disturbi dell’umore, i disturbi d’ansia (frequenti nei pazienti neodiagnosticati), euforia e labilità emotiva. A queste si aggiungono conseguenze psicologiche molto più numerose e complicate, soprattutto se si tengono in conto gli aspetti relazionali: la diagnosi e la vita con sclerosi non sono infatti dimensioni vissute solo a livello individuale dal malato ma hanno profonde ripercussioni anche nelle persone della cerchia familiare.

Il tema di “accettare” la malattia è centrale nelle richieste di aiuto psicologico. Spesso tali richieste emergono dagli invianti, siano essi familiari o medici, oppure dai pazienti stessi.
Ma quando si accetta una malattia? Quando si può dire che qualcuno “ha accettato” l’idea che la propria vita dovrà cambiare, forse poco o forse tanto, che forse non potrà più essere in grado di fare quello che faceva prima, che le proprie relazioni probabilmente cambieranno e cambierà il modo di viverle?

Dare una risposta a una domanda così non è semplice, e nei momenti più speculativi mi domando anche quanto sia realmente necessario. Perché il percorso verso l’accettazione è una strada lunga e individuale, nella quale lo psicologo può essere un fondamentale sostegno terapeutico e forse, come nei viaggi più significativi, l’importante non è l’arrivo, ma il viaggio stesso.
Lavorando con persone con SM appare fondamentale il saper dare parole al forte dolore che accompagna ogni percorso di accettazione, percorso che non può esimersi dall’elaborazione del lutto connesso comunque a una “perdita”. Le persone con SM a volte “perdono” la capacità di fare cose come le facevano prima, perdono la possibilità di fare quello sport o quel lavoro, di andare in quel determinato posto o di fare quel tipo di vacanza. “Perdono” comunque un’idea che avevano di sé come persone “non-malate”.

Vengono spesso dati consigli psicologici come quello del focalizzarsi su ciò che si può continuare a fare senza pensare troppo a ciò che non si può fare più, oppure quelli di vivere il momento presente e godere del momento positivo quando arriva. Questo secondo me ha meno a che fare con il processo di accettazione. Perché focalizzarsi sul presente e su ciò che c’è di positivo è possibile, ma credo solo dopo aver esperito anche tutte le altre emozioni che inevitabilmente una diagnosi così terribile porta con sé: la rabbia, lo sgomento, la tristezza, l’ansia…
Alcuni malati riportano come esperienza il fatto che la loro vita, dopo la sclerosi, è in qualche modo migliorata, perché hanno imparato a godere di certi dettagli che prima sfuggivano, e apprezzare le piccole cose quotidiane. Io credo che un atteggiamento del genere possa essere un esempio di quella che chiamiamo “accettazione”, e credo  che questo possa avvenire solo dopo un lavoro di elaborazione del lutto e di sostengo delle capacità di resilienza del malato e della sua famiglia.  E parlo di resilienza non a caso: forse proprio per sottolineare la differenza fra una accettazione dove comunque la persona resta parte attiva e ri-organizza la propria vita e una rassegnazione, non per forza disincantata, ma comunque passiva.

Da parte di noi specialisti c’è secondo me da tenere ben presente che il percorso di accettazione non rappresenta un percorso univoco (Bonino*) ma che ogni paziente deve trovare una strada, per arrivare all’attribuzione di un significato personale all’esperienza della malattia. E, come ricorda Bonino, questo è un iter non fluido in cui ad ogni passo di può subire una battuta di arresto per poi ripartire, o a volte tornare indietro.
Ma questo viaggio dentro di sé e nel proprio modo di vivere la SM è l’unica condizione per riuscire ad accettarla: cioè a fare uno spazio alla malattia, non solo un terribile evento estraneo ma un cambiamento da inglobare dentro la propria vita.
Per far sì che il malato non si riduca alla malattia, rischiando così di rendere così la sclerosi l’unica cosa “multipla” della propria vita.

*Silvia Bonino - 2013 - Aspetti psicologici nella sclerosi multipla: dalla diagnosi alla gestione, Springer edizioni


Per maggiori informazioni sulla Sclerosi Multipla, visita ilsito dell’AISM

martedì 21 maggio 2013

Dipende da cosa



La classificazione delle dipendenze secondo il modello di Luigi Cancrini


Uno degli studiosi che ha contribuito in maniera significativa l’ampliarsi del dibattito circa l’intervento nell’ambito delle tossicodipendenze è Luigi Cancrini. Cancrini ha sviluppato una classificazione delle differenti tipologie di tossicomanie creata sulla base delle dipendenze da sostanze, ma che a tutt’oggi rappresenta una mappa concettuale utilizzabile anche nei confronti di situazioni con dipendenze comportamentali o “nuove dipendenze”. Questo è possibile perché, nonostante ogni storia sia un caso unico e abbia degli aspetti di singolarità dei quali bisogna tener conto in fase di presa in carico o cura, il meccanismo psicologico generale che porta una persona ad avere un problema di dipendenza è lo stesso e non si rilevano sostanziali differenze sia che si tratti di una dipendenza da sostanza sia che si tratti di una dipendenza senza sostanza.

Secondo Cancrini e La Rosa (2001) le tossicodipendenze sono una forma di presentazione dei problemi di svincolo e delle difficoltà di individuazione.
I criteri che gli autori utilizzano per la creazione della loro classificazione sono diversi: l’organizzazione e il modello comunicativo della famiglia del tossicodipendente; l’organizzazione psicologica che descrive i tratti del carattere e la personalità del tossicodipendente; le caratteristiche dei comportamenti di assunzione della sostanza elettiva; le modalità di rapporto che il tossicodipendente e/o i suoi familiari tendono a stabilire con gli operatori e/o con i servizi che si occupano di loro; le forme e il decorso di intervento terapeutico.

Il modello suddivide quattro principali categorie di tossicomani:

A.        Tossicomanie traumatiche
B.        Tossicomanie di area nevrotica
C.        Tossicomanie di transizione
D.        Tossicomanie sociopatiche

4.1 Tossicomanie traumatiche o A

La situazione famigliare in cui questa forma di tossicomania si presenta ha caratteristiche piuttosto diversificate: si tratta, in alcuni casi, di un figlio/a ritenuto esemplare, ma abituato a tenere per sé i propri problemi, che crolla, diventando tossicodipendente, di fronte all’esperienza di un grave trauma. Nella maggior parte dei casi si tratta di adolescenti che hanno da poco definito la loro identità, o di giovani adulti non impegnati sentimentalmente o solo di recente impegnati in una relazione di coppia, la cui nuova rete di relazioni è inadeguata al momento del bisogno creato dal dolore e dal lutto. Il lutto è in genere legato alla perdita di una persona cara, ma può anche riferirsi alla perdita della fede in un’idea o in una persona. 

La sostanza serve per attenuare una sofferenza o uno stato di tensione molto forte e, allo stesso tempo mettere in secondo piano le problematiche irrisolte precedenti all’evento luttuoso, con lo scopo non dichiarato e talvolta non cosciente di mantenere il quadro relazionale dominante in quel gruppo familiare.
Lo sviluppo della tossicodipendenza avviene in breve tempo perché repentino è il cambiamento di stile di vita dove la sostanza diventa di colpo il centro di tutto proteggendo l’individuo da una situazione di panico e di sofferenza molto violenta. Il comportamento di questo tipo di tossici può essere, nei casi più gravi, teatrale e autodistruttivo: il tentativo non è quello di ricevere piacere, ma di stordirsi.
Dal punto di vista terapeutico, le tossicomanie di tipo A rispondono alla terapia; il recupero può essere totale se la droga non ha causato danni fisici persistenti; il lavoro da svolgere è centrato sulla tematizzazione e la verbalizzazione del lutto ed è indicato un lavoro individuale.

            4.2 Tossicomanie di area nevrotica o B

Dal punto di vista sistemico la struttura familiare in cui si sviluppa questo tipo di tossicodipendenza prevede:
a)         il coinvolgimento forte di uno dei genitori (solitamente quello di sesso opposto) nella vita e nella tossicodipendenza;
b)         il ruolo periferico dell’altro genitore;
c)         l’evidenza di quella che viene definita “triangolo perverso”; ossia l'alleanza non dichiarata tra un genitore e un figlio contro l'altro genitore.
d)        la debolezza dei confini tra i sottosistemi che definiscono la gerarchia familiare. Quello dei genitori è un sottosistema che dovrebbe essere differenziato da quello del/i figlio/i: in questo tipo di situazioni la posizione del piano della coppia e quello dei figli non è sempre ben definita né armonica e si può assistere ad una vera e propria inversione nelle funzioni di genitore e di figlio.
e)         lo sviluppo di una polarità che definisce la figura del figlio/a tossicomane come “cattivo” in rapporto ad un altro figlio/a “buono”;
f)         un modello comunicativo caratterizzato dalla contraddittorietà dei messaggi, dalla rapidità e dalla violenza di sviluppo dei messaggi.

Questo tipo di tossicomania è caratterizzato dalla connotazione depressiva dell’abitudine (assenza di elementi relativi al “piacere”) e dall’atteggiamento dimostrativo con provocazioni spesso rivolte a coloro che vengono percepiti responsabili, molto spesso i genitori.
Dal punto di vista terapeutico, il lavoro deve essere centrato sin dall’inizio sul controllo dei comportamenti sintomatici attraverso la costituzione di un fronte unito da parte dei genitori; il tentativo di lavorare individualmente con queste persone è abitualmente del tutto inutile.

4.3.      Tossicomanie di “transizione” o C

Il termine indica quei tossicomani la cui organizzazione difensiva prevede un’ampia utilizzazione di meccanismi nevrotici e psicotici.
Dal punto di vista clinico la situazione presenta:
1)         stati di esaltazione gioiosa (ipomaniacale o manifestatamene maniacale) caratteristici dei primi anni ed espressione di quella che è stata chiamata “luna di miele” con la sostanza;
2)         importanti e ripetuti stati depressivi, frequenti poi in fasi successive della tossicodipendenza;
3)         difficoltà del paziente, dei genitori e di chi osserva a collegare l’evoluzione della tossicodipendenza con fatti specifici della vita della persona;
4)         rischio di suicidio, soprattutto quando il ricorso alla droga viene bruscamente interrotto;
5)         tendenza al mantenimento nel tempo di una dipendenza marcata (affettiva, organizzativa, economica) dalla famiglia d’origine;
6)         rischio di ricadute.

Lo stile comunicativo in queste famiglie evidenzia interessanti analogie con le famiglie con problemi di svincolo, (con questa espressione si fa riferimento alla difficoltà, e talvolta impossibilità, di lasciare la famiglia d’origine per avviare la costruzione di un proprio nucleo familiare); in particolare si ritrova la difficoltà estrema di non definire la relazione e l’uso di messaggi paradossali e incongrui, col risultato di una estrema difficoltà comunicativa tale da rendere molto complesso capire il significato reale di quello che viene detto, in un perenne stato di insoddisfazione circa la relazione; i membri mostrano infatti una diffusa tendenza a ignorare il significato del messaggio degli altri.
I genitori sono ambedue coinvolti nella tossicodipendenza o nella vita del figlio/a. In questo tipo di famiglie, come in quelle con un paziente psicotico, esiste quello che Mara Selvini Palazzoli ha chiamato il “membro prestigioso”.
Per quanto riguarda l'intervento, questo tipo di tossicomania è molto difficile da trattare. Trattandosi di problemi di svincolo l’indicazione è quella del lavoro con l’intera famiglia.

4.4  Tossicomanie “sociopatiche” o D

Le tossicomanie “sociopatiche” o D sono caratterizzate:
a)         dall’evidenza di comportamenti antisociali prima dello sviluppo della tossicodipendenza e della presenza di condizioni di svantaggio sociale e culturale;
b)         dall’atteggiamento di sfida del tossicodipendente che si comporta con la freddezza e la provocazione di una persona incapace di amare e dalla sua percezione di un ambiente ostile intorno a sé;
c)         dal distacco con cui parla della sua abitudine, dalla frequenza di politossicomanie e dalla sottovalutazione degli effetti della droga.
Le storie di questi pazienti sono quelle delle famiglie multiproblematiche. Il disadattamento di questi giovani si evidenzia nelle difficoltà scolastiche avute e poi nello scontro con le regole imposte dalla società durante l’adolescenza.
I modelli comunicativi e l’organizzazione familiare di questo tipo di tossicodipendenti sono simili a quelli riscontrati nelle tossicomanie di tipo B. Nei casi più seri corrispondono a quelli riscontrati nelle famiglie disimpegnate: i ruoli tra genitori e figli non sono ben definiti come neppure i confini tra i sottosistemi, col risultato che queste famiglie  si presentano come un gruppo profondamente e drammaticamente disorganizzato i cui membri si muovono come se fossero isolati tra loro, senza alcuna reciproca e apparente interdipendenza.
Il tossicomane di tipo D conduce una vita da marginale intraprendendo spesso una carriera deviante o, nei casi più gravi, di un’istituzionalizzazione cronica.
A livello terapeutico l’aggancio e gli sviluppi positivi in una terapia convenzionale sono in questi casi rari e difficili. Tuttavia si è potuto vedere che la combinazione di più passaggi terapeutici può produrre degli effetti positivi: si tratta di organizzare una “catena terapeutica” in cui più imprese posano collaborare. L’intervento in comunità può essere in questi casi particolarmente utile come punto di arrivo, colmando le gravi carenze a livello di rapporti sociali e familiari.


Breve bibliografia:
Quei temerari sulle macchine volanti. Studio sulle terapie dei tossicomani,  Cancrini Luigi, 1982, Carocci Editore

Schiavo delle mie brame. Storie di dipendenza da droghe, gioco d'azzardo, ossessioni di potere  Cancrini Luigi, 2003, Frassinelli Editore


Guida alla psicoterapia Cancrini Luigi, 2004, Editori Riuniti
 

L'oceano borderline. Racconti di viaggi  Cancrini Luigi, 2006, Cortina Raffaello  Editore

lunedì 13 maggio 2013

Fra il vecchio e il nuovo / 2

 Le dipendenze e le connessioni con lo studio della personalità



Quando si parla di "nuove dipendenze" non possiamo dimenticarci che, al di là del tipo di sostanza o del comportamento, quello di cui dobbiamo prenderci cura è la persona che presenza il problema e, appunto, la sua personalità.

Rispetto a questo, Luigi Cancrini (2004) spiega come il significato psicopatologico dei comportamenti legati alla dipendenza sia divenuto più chiaro negli ultimi anni con il parallelo evolvere degli studi relativi al funzionamento borderline della mente umana.

Funzionare a livello borderline significa essenzialmente dare giudizi estremi su noi stessi e sulla realtà che ci circonda. La mente che funziona a questo livello fa difficoltà a cogliere le gradazioni di positività e negatività in una stessa persona o in uno stesso oggetto. Ma tale funzionamento è anche uno dei modi in cui la mente umana può operare, e può addirittura fare parte dello sviluppo evolutivo: per il bambino che vive un’angoscia di separazione, la madre presente è “la madre buona” che lo rende felice, la madre assente è “la strega cattiva” che lo rende pieno di rabbia. Solo verso i tre anni quando, secondo la teoria della mente, il bambino riesce a ricordare che la madre c’era e riesce ad immaginare mentalmente che ci ci sarà ancora, questa fase critica viene superata. Il superamento dell’angoscia di separazione rappresenta l’avvenuta integrazione tra l’immagine della madre cattiva con quella buona.

La tendenza a regredire verso forme di funzionamento borderline emerge anche in età adulta, quando si vivono situazioni di particolare tensione: nei passaggi evolutivi critici, nel lutto o nella perdita, negli entusiasmi basati sull’identificazione proiettiva con un’idea o con una persona, nell’innamoramento.

Per alcune persone è però molto più facile scivolare in questo tipo di funzionamento rispetto ad altre. Se si guarda bene si vede che il processo di maturazione caratteristico delle persone più “sane” si realizza solo se il bambino cresce in un ambiente favorevole e non va incontro ad incidenti gravi. In questi casi la capacità di integrare le rappresentazioni buone e cattive di sé e dell’altro non si sviluppa compiutamente. Chi ha sofferto da piccolo ha difficoltà sue proprie a stabilire rapporti equilibrati e costruttivi anche quando cresce. La realtà con cui ci si confronta è quella di bambini che hanno avuto problemi nei loro secondi 18 mesi di vita, che vanno incontro a una serie di esperienze poco fortunate nell’adolescenza e che diventano protagonisti, da grandi, di storie caratterizzate da una sostanziale inadeguatezza nelle relazioni interpersonali più importanti. La struttura di personalità che emerge analizzando le loro storie è caratterizzata proprio dalla particolare facilità con cui la persona regredisce a livelli di funzionamento borderline. Nelle persone che rischiano di diventare dipendenti la soglia di attivazione del funzionamento psichico è bassa e si abbassa ulteriormente con l’acuirsi della condizione di dipendenza. Si innalza invece nel corso di un processo psicoterapeutico riuscito. 

Dato che le situazioni che stanno fra la nevrosi e la psicosi sono molto numerose e portatrici della propria specificità, secondo Cancrini ciò che conta, nella diagnosi e nella terapia di una persona dipendente è soprattutto il suo particolare e specifico disturbo di personalità: “chi si occupa di dipendenza, infatti, deve sempre sapere che la sostanza o l’abitudine da cui una persona dipende costituiscono l’aspetto meno specifico del suo intervento terapeutico; la parte più specifica e personale inizia dopo, quando ci si confronta, tentando di offrire delle alternative vincenti, con i bisogni particolari del soggetto: bisogni coperti o compensati, finora, proprio dalla sua condizione di dipendenza" (Cancrini, 2004).

Breve bibliografia:
Quei temerari sulle macchine volanti. Studio sulle terapie dei tossicomani,  Cancrini Luigi, 1982, Carocci Editore

Schiavo delle mie brame. Storie di dipendenza da droghe, gioco d'azzardo, ossessioni di potere  Cancrini Luigi, 2003, Frassinelli
Editore

Guida alla psicoterapia Cancrini Luigi, 2004, Editori Riuniti
 

L'oceano borderline. Racconti di viaggi  Cancrini Luigi, 2006, Cortina Raffaello  Editore

venerdì 3 maggio 2013

Fra il vecchio e il nuovo/1


Le nuove dipendenze e il bisogno di nuove riflessioni

In questi giorni, dopo i fatti di cronaca che abbiamo purtroppo conosciuto attraverso i giornali, si fa un gran
parlare della dipendenza da gioco e delle dimensioni che questo problema sta prendendo nel nostro Paese.
Occorre secondo me iniziare a riflettere seriamente anche sui meccanismi psicologici alla base dei comportamenti di dipendenza per poter mettere in atto serie strategie non solo di intervento, ma anche di prevenzione.  Nel nostro quotidiano, siamo infatti abituati a parlare di dipendenze riferendosi alle sostanze illegali. Negli ultimi anni invece si osserva un ampliamento del campo di utilizzo del termine “dipendenza” in riferimento a comportamenti, abitudini, situazioni legali delle quali non possiamo fare e meno e che non hanno alcuna connessione con l’assunzione di sostanze. Si tratta di una dipendenza di tipo psicologico, che si ritiene essere più “sfuggente” rispetto alla dipendenza fisica, in quanto fa riferimento a meccanismi difficilmente evidenziabili, per cui il desiderio irrefrenabile di assumere una sostanza, come anche di trovarsi in una determinata situazione, di consumare qualcosa di non poter fare a meno di qualcuno, non è in relazione con le caratteristiche della sostanza stessa e con le conseguenze biochimiche dell’assunzione (Coletti 2004).
Già nel 1969 un comitato di esperti dell’Oms (Organizzazione Mondiale della Sanità) propone la seguente nozione di dipendenza:

Stato psichico, e alcune volte anche fisico, che risulti dall’interazione tra un organismo vivente e un farmaco e che si caratterizza con delle modificazioni del comportamento e con altre reazioni le quali contemplano sempre una pulsione a prendere una sostanza in modo continuo o periodico, al fine di ritrovare i suoi effetti psichici e  a volte per evitare il malessere della privazione. Questo stato può accompagnare o no una tolleranza. Lo stesso individuo può essere dipendente da più sostanze (Margaron, 2000).

Secondo questa definizione il processo della dipendenza è un prodotto dell’interazione fra persona, sostanza e contesto: si aprono le porte ad un tentativo di spiegare la dipendenza come conseguenza di un processo estremamente complesso nel quale intervengono più fattori.

I primi presupposti sistemici (ai quali qui si fa riferimento) propongono una visione dell’individuo come un essere sociale il cui comportamento è comprensibile alla luce delle relazioni all’interno delle quali è inserito; in questa definizione viene sottolineato l’aspetto comunicazionale di ogni evento e azione, compreso il comportamento sintomatico. Rigliano (1998) formula una definizione della dipendenza molto densa di significato: “La dipendenza è ciò che risulta dall’incrocio tra il potere che la sostanza ha e il potere che quella persona è disposta ad attribuire alla sostanza” (Rigliano, 1998).

Nonostante questo, esiste ancora un forte dibattito tra i sostenitori dell’origine organica delle dipendenze, sia psicologiche che non, e coloro che invece leggono il coinvolgimento organico come conseguenza del consumo e abuso che proviene piuttosto da fattori psicologici e sociali.
Alcuni neuropsichiatri (Inversen, 1999) si concentrano sul ruolo della dopamina (un neurotrasmettitore prodotto dal cervello) nello scatenare bisogni di assunzione di sostanze; altri ricercatori suggeriscono come alcuni individui posseggano una specifica condizione cerebrale che li rende vulnerabili alla dipendenza. In particolare sembra oramai accertato (Coletti, 2004) che nell’apparato cerebrale si possano identificare strutture neuronali deputate alla ricompensa ed alla punizione e che le modalità per ricercare la ricompensa ed il piacere possano essere considerate alla base di quei meccanismi per cui un essere umano cerca proprio quella sostanza, quegli effetti. Queste strutture neuronali sono considerate in relazione con l’ambiente sociale, che ne plasma i limiti e le caratteristiche.
Gli approcci organici però non sono più utilizzabili qualora si prenda in considerazione il ricorso ripetuto, angoscioso e totalizzante che alcuni individui hanno verso situazioni, piuttosto che sostanze. Sempre Coletti sostiene che “l’eliminazione dall’orizzonte degli studi delle sostanze e dei loro effetti ricercati, rende non plausibili (o, almeno non del tutto utilizzabili) tutti gli apporti delle scienze neurobiologiche” (Coletti, 2004).

Secondo Croce (2001) è stato finora eccessivo l’interesse per i modelli medici o biologici di spiegazione del fenomeno del gioco d’azzardo patologico, anche perché questi non hanno offerto alcuna conclusione condivisa ne' alcuna evidenza scientifica delle ipotesi eziopatogenetiche. Secondo il punto di vista sistemico i comportamenti di addiction sembrano rispondere a meccanismi relazionali: le abitudini a comportamenti rischiosi si inseriscono perfettamente nei confronti delle esigenze non solo di un individuo e delle sue spinte interne, ma anche riguardo al bisogno di introdurre nel funzionamento di un sistema determinati elementi che sono legati a doppio filo alla organizzazione del sistema stesso in tutta la sua autoreferenzialità. In questa veste, ad esempio, la dipendenza da Internet, che per sua natura attrae molto le persone giovani, potrebbe far pensare ad una risposta legata a problemi inerenti alla fase del giovane adulto che nello spazio virtuale trova una risposta distorta a problemi tipici di questo momento del ciclo vitale.

La dipendenza, per essere tale, deve essere capace di soddisfare tre bisogni fondamentali (Cancrini, 2004): il primo è quello che si gioca sul piano del piacere o sulla caduta di una tensione; il secondo si basa sul contrasto al disegno consapevole di una persona e dell’ambiente che lo circonda che magari lo vorrebbe, a parole, capace di lavorare, amare, divertirsi, ed invece nei fatti il soggetto si trova impossibilitato a causa della dipendenza; il terzo bisogno è quello relativo al piano della trasgressione, dell’essere e del presentarsi diverso, fuori dalle regole che scadenzano la quotidianità vissuta come inaccettabile.
Se soddisfa tutte queste esigenze, l’oggetto “delle brame”, che si tratti di una sostanza, come di un comportamento e/o un’abitudine, diventa il protagonista assoluto della vita, intorno al quale la persona si concentra o su cui sente di poter riflettere tutti i suoi desideri e tutti i suoi bisogni.

Vai al Quaderno Cesvot "Le nuove dipendenze. Analisi e pratiche di intervento"