lunedì 7 ottobre 2013

Compagni di scuola




La mediazione linguistico-culturale in ambito scolastico

 Nell’ambito della psicologia sociale e di comunità, varie ricerche coincidono nell’affermare che la scuola rappresenta il nodo centrale per l’integrazione della popolazione immigrata di più giovane età. Recentemente, alcune ricerche in ambito nazionale hanno dimostrato come enti quali la scuola rivestono un ruolo fondamentale per determinare l’esito del percorso di integrazione di bambini ed adolescenti (Pomicino, Romito, Paci 2008). 

In età adulta, l’esperienza di immigrazione può comportare quello che viene definito stress da transuculturazione: repentini cambiamenti di ambiente ed abitudini di vita che coinvolgono sia gli aspetti strutturali, che quelli processuali dell’identità. Queste difficoltà possono venire ampliate se l’esperienza migratoria viene vissuta nelle fasi dell’infanzia e dell’adolescenza, momenti fondamentali per la costruzione e la strutturazione identitaria. 

Inoltre, anche per i figli di migranti nati in Italia, il processo di costruzione dell’identità è comunque più complesso, mancando un “prima” e un “dopo” che riescano a definire il proprio passato e il proprio futuro. Se i genitori  migranti hanno, infatti, una solida identificazione con la loro cultura di origine che li lega alla propria storia, oltre ad un progetto migratorio definito che rappresenta il loro futuro, ai loro figli manca spesso questo “ieri” e questo “domani”: non hanno un riferimento al passato, e il loro futuro è più incerto di quello della generazione precedente (Mazzetti 2003). In questo processo dinamico di costruzione di identità e sostegno, è importante quindi pensare la scuola come uno dei supporti fondamentali, un luogo dove i bambini e gli adolescenti stranieri possano “ricucire lo strappo fra il dopo e il prima”:

 

per il recupero delle loro radici hanno bisogno di riconoscerne il valore. È possibile agevolarli creando un’atmosfera di rispetto e di valorizzazione per la loro terra di origine […]. Perché si sentano di appartenere all’Italia, bisogna aiutarli a costruirsi un nuovo progetto di vita qui, a costruire fantasie su come saranno da grandi nella nuova patria. E per rammendare lo “strappo” tra il dopo e il prima, occorre aiutarli a ricostruire una storia i cui vari elementi della loro biografia, ma anche quella dei loro familiari, trovino un senso reciproco, e si uniscano qui nel presente (Mazzetti 2003, pag. 167)

La scuola, inoltre, rappresenta un punto di incontro e inclusione importante non solo per i figli: la riuscita e il benessere scolastico sono stati considerati da alcuni autori come indicatori significativi dell’adattamento al Paese ospitante della famiglia nel suo complesso (Portes, Rumbaut 1990; Mancini, Secchiamoli 2003). Inoltre, da un lavoro che ha coinvolto genitori italiani, genitori stranieri e insegnanti in alcune scuole di Milano è stato sottolineato come nei contesti scolastici le relazioni fra italiani e migranti, sia quelle che riguardano i bambini che quelle relative ai genitori, vengano vissute in maniera poco problematica, a differenza di quanto accade ad esempio nei quartieri di residenza, dove le relazioni fra cittadini autoctoni e migranti sono vissute in maniera più complessa e conflittuale (Brunazzi, Marando, Colombo 2008).

Sulla scuola gravano quindi aspettative elevate rispetto al tema dell’accoglienza degli alunni (e, indirettamente, delle famiglie) stranieri. A fronte del pregiudizio per il quale questa professione è stata sempre considerata “soft”, l’insegnamento è oggi diventato molto più problematico rispetto a quanto sia mai stato nel passato. In una ricerca che ha analizzato le due microaree della professione, cioè quella didattica-educativa e quella socio-relazionale, è stato sottolineato come, accanto a programmi didattici sempre più dettagliati e alla realizzazione di progetti in orario extra scolastico, sia cambiato profondamente il modo degli alunni e delle famiglie di relazionarsi alla scuola: agli insegnanti viene richiesta una maggiore capacità di lavorare in rete con i colleghi, di relazionarsi con le famiglie, e di affrontare i problemi dei cambiamenti delle classi dovuti all’aumento di alunni stranieri (Giusino, Arcuri, Novara 2008). Tali modifiche rendono oggi al professione dell’insegnamento una delle più esposte a rischio burnout. Una efficace preparazione del personale docente può favorire i processi di integrazione degli alunni stranieri: la scuola rischia però di divenire un contenitore sul quale si concentrano elevate aspettative senza che vengano realmente dati a docenti, personale ATA, dirigenti, i reali strumenti e le risorse utili a una gestione produttiva delle difficoltà derivate dalla presenza di bambini stranieri. 
 
Esiste un interessante studio condotto su un gruppo di 182 insegnanti della scuola dell’obbligo rispetto al tema della scuola multiculturale (Francani, 2004 citato in Mancini 2006). Da questa ricerca emerge il quadro di una scuola a volte impreparata a gestire tutti i problemi che la presenza di alunni stranieri comporta per il sistema scolastico: circa un terzo degli insegnanti intervistati si dichiara ottimista rispetto all’integrazione scolastica, mentre quasi 4 su 10 appaiono scettici, mostrando una visione assimilazionista della società. Ma il dato maggiormente preoccupante riguarda quei 3 insegnanti su 10 che si dichiarano intolleranti sia nei confronti dell’integrazione che rispetto alla presenza di alunni stranieri, considerati una delle cause di peggioramento della scuola italiana.
Al di là delle complesse problematiche che la pedagogia interculturale comporta, da un punto di vista psicosociale viene sottolineata la carenza di ricerche volte a verificare se e in quale misura l’atteggiamento degli insegnanti incida sulle modalità con le quali bambini e adolescenti migranti “negoziano” gli aspetti etnico-culturali della loro identità (Mancini 2006). Questo problema cruciale diviene il collegamento ideale per inserire il tema della mediazione linguistico-culturale nella scuola: in un lavoro del 1998 svolto nel Comune di Bologna veniva infatti sottolineato come una importante funzione del mediatore a scuola fosse quella di “rinforzo dell’autostima e dell’identità” dei bambini stranieri. I bambini sembrano infatti vedere il mediatore come “uno di loro”, che però sta al di là della cattedra (Tarozzi, 2006).

È partendo da queste premesse che ci siamo avvicinati al tema della mediazione interculturale nella scuola, tenendo cioè in profonda considerazione la difficoltà relazionale che comporta gestire da un lato una classe dove sono presenti alunni stranieri, e dall’altro, la complessità del processo di integrazione. Nel corso del 2009 abbiamo svolto all’interno di un progetto finanziato dalla Comunità europea un’indagine sulla percezione dell’utilità della mediazione linguistico-culturale nel sistema scolastico. L’intera ricerca è stata pubblicata nel Quaderno Cesvot n°47 dal titolo “La mediazione linguistico-culturale. Stato dell’arte e potenzialità”. 
 
È interessante notare come, secondo quanto espresso dai partecipanti ai focus group portati avanti all'interno del progetto, la mediazione linguistico-culturale nella scuola sia percepita come un’attività molto più complessa di quanto non sembri ad un primo sguardo: la mediazione  non è più vista come scambio e facilitazione alunno-insegnate, ma appare come uno strumento da utilizzare all’interno della rete più ampia e di un sistema che coinvolge sia l’istituzione scolastica, che la famiglia, che il territorio di riferimento.

Nelle nostre interviste  emerge come una criticità significativa il problema della delega impropria da parte delle famiglie e dei docenti nei confronti dei mediatori. Alcuni autori hanno sottolineato come questo rischio fosse diminuito negli ultimi anni grazie a una maggiore definizione del ruolo e della funzione dei mediatori:

più in generale rispetto al rischio di delega eccessiva che riscontravo nella ricerca di dieci anni fa, l’affermazione e il riconoscimento diffuso di questa figura ha fatto sì che le aspettative eccessive restino, ma la delega forse no. Anzi si registra sempre più spesso da un lato il rifiuto da parte di certe famiglie di accettare l’intervento di un mediatore culturale percepito come un invadente strumento di assimilazione, e, dall’altro, un controllo più serrato del suo operato da parte degli insegnanti che pure lo impiegano ma tendono a non delegargli troppe funzioni (Tarozzi 2006)

Nel caso dei nostri insegnanti e formatori questa percezione non coincide: nell’intervista emerge invece come l’attivazione di un mediatore per una classe possa rappresentare una richiesta di supporto nella gestione dell’aula: si corre il rischio di incorrere in un processo di delega per cui il mediatore diventa una sorta di “insegnante di sostegno” per gli alunni stranieri, una sorta di “enzima” al quale viene chiesto di velocizzare il processo di inserimento senza in realtà coinvolgere il sistema-scuola nel suo insieme.

L'imagine pubblicata in questo post è di proprietà della Rivista Pluraliweb di Cesvot.

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