L’importanza della diagnosi relazionale nelle malattie croniche
Le malattie croniche sono in costante aumento, complice anche una maggiore (e migliore) capacità diagnostica, nonché l’invecchiamento progressivo della popolazione.
L’Organizzazione Mondiale della Sanità dal 2001 realizza indagini periodiche sulla presenza e gestione nei singoli paesi delle malattie croniche (includendovi le malattie cardiovascolari, le malattie respiratorie croniche, il diabete e il cancro); ad oggi queste malattie sono la causa di morte per circa il 70% della popolazione mondiale.
Lo scorso 6 settembre a Copenhagen dalla Regione Europea dell’OMS sono state poste le basi per il nuovo Piano di azione sulle malattie croniche non trasmissibili, dove è stato sottolineata l’importanza della prevenzione sia a livello di popolazione (promozione di stili di vita salutari), che a livello individuale (valutazione del rischio dei singoli e diagnosi precoce). In questa stessa sede è stata sottolineata l’importanza della promozione della salute mentale come attività di prevenzione dei fattori di rischio, nonché di supporto nella gestione delle malattie: è stato infatti dimostrato come fattori psicosociali possano esporre maggiormente al rischio di problemi cronici, in particolare in associazione con sintomi depressivi e isolamento sociale. E’ sempre più forte quindi la connessione fra fattori organici e fattori socio-psicologici, i quali diventano non solamente opportunità di sostegno da attivare al momento dell’inizio della cura, ma vere e proprie azioni di prevenzione e intervento.
Quando ci si trova davanti a una diagnosi di malattia cronica, la persona colpita realizza di trovarsi di fronte a una notizia che comporterà un profondo cambiamento nella propria vita; proprio per questo, è comune provare inizialmente un grande senso di smarrimento, accompagnato successivamente da sintomi di tipo ansioso o depressivo, vissuti di rabbia e paura, senso di frustrazione ed impotenza, senso di colpa verso i familiari o altre persone vicine: una ricerca del 2002 ho sottolineato che, su 739 soggetti con Sclerosi Multipla intervistati, il 41,8% presentava sintomi depressivi clinicamente significativi.
La presenza di una malattia cronica pone le persone di fronte alla necessità di riadattare le proprie abitudini e, a livello psicologico, le proprie strategie di coping: ma alcune ricerche sostengono che in questi casi circa il 30% dei pazienti non riesce a recuperare uno stato psicologico equilibrato, e la cosiddetta “fase di aggiustamento” alla nuova situazione si prolunga nel tempo.
Spesso il sostegno psicologico dato in queste fasi si concentra molto sulla persona che ha avuto la diagnosi; la famiglia, la coppia, o il sistema all'interno del quale la persona vive non viene dimenticato, ma è preso in considerazione principalmente per gli aspetti di sostegno e cambiamento da mettere in atto per aiutare il malato. Questo purtroppo riduce molto la possibilità di intervento, e quindi di miglioramento, della condizione individuale del paziente: tutto il sistema risulta infatti perturbato nella propria vita quotidiana e nella propria identità dalla diagnosi di malattia cronica. L’evoluzione delle malattie croniche in generale, abbastanza conosciuta ed affrontata sul piano psicologico individuale, non è tuttora adeguatamente valorizzata e trattata sul piano delle relazioni interpersonali: un evento inatteso e drammatico come la diagnosi di malattia cronica può arrivare a bloccare l’evoluzione di tutto il sistema familiare coinvolto.
Immaginate il caso in cui ad ottenere una diagnosi sia un giovane, magari neoimpiegato, pronto ad andare a vivere da solo: la paura per un futuro che diventa immediatamente più incerto e insicuro può fermare questa esperienza di autonomia, bloccando il progetto di vita del ragazzo e al contempo creando nei genitori dei profondi vissuti di ansia e angoscia che possono portare ad un nuovo, e più serrato, accudimento del figlio. Oppure casi in cui in una coppia, all’ammalarsi di un membro, l’altro mette in atto scelte che sacrificano il proprio mondo sociale e lavorativo per stare a casa ed aiutare il partner. Nella nostra pratica quotidiana non è raro vedere come proprio i membri della famiglia possono a loro volta sviluppare sintomi psicologici che rischiano di non essere presi in considerazione perché considerati “meno gravi” rispetto alla malattia cronica: “non si preoccupi per me, il malato non sono io!” è una delle frasi che partner, genitori o figli pronunciano con maggior frequenza quando vengono invitati a parlare della situazione psicologica del sistema-famiglia.
I legami affettivi e di sostegno, di fronte a una diagnosi di malattia cronica, vengono rinforzati, e questo rappresenta un valore aggiunto se le risorse messe in campo sono utili per creare un nuovo equilibrio e un adattamento alla nuova condizione di vita. C’è però il rischio che lo stress, l’ansia, la paura connessi alla diagnosi rinforzino i rapporti in modo eccessivamente protettivo, creando intorno al malato un mondo rigido di rapporti e bloccando l’evoluzione del singolo, della coppia, della famiglia.
Il significato che l’evento-malattia ha per il paziente e per tutta la sua famiglia dipende da molti fattori quali la storia familiare, le premesse che vi erano prima della diagnosi, i ruoli svolti da ogni membro ed il modo condiviso e specifico di costruire ed interpretare la realtà. Quindi, a ciascuna storia di malattia corrisponde una narrativa personale e speciale. Non dimentichiamoci però che questa “unicità” della storia non significa “individualità”: quella della malattia è infatti una storia che coinvolge il malato in primis, ma anche le persone che vivono maggiormente a contatto con lui. Prendersi cura di chi sta male significa anche, e a volte soprattutto, prendersi cura delle persone che ha accanto, partner, genitori, fratelli, figli.
Diceva Darwin che la specie che si evolve e sopravvive non è quella più forte né quella più intelligente,ma quella maggiormente capace di adattarsi al cambiamento. Questo concetto vale sì per le specie, ma anche per i singoli individui, e per noi psicoterapeuti la capacità di resilienza resta un fattore fondamentale da verificare al momento in cui viene richiesto il nostro aiuto. Nelle famiglie colpite da diagnosi di malattia cronica, la resilienza è un fattore predittivo della migliore o peggiore capacità futura di poter convivere con i sintomi e, laddove possibile, avere una vita piena e soddifacente
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