lunedì 14 agosto 2017

"Noi non siamo razzisti ma"


Riflessioni psicologiche su accoglienza, razzismo, stereotipi e solidarietà

In un bellissimo libro del 2001, "Psicologia dell'inerzia e della solidarietà", lo psicologo Adriano Zamperini scriveva: "la solidarietà all'interno di un gruppo sembra implicare la solidarietà contro gli outsider.  La solidarietà è costituita da legami. Si tratta, almeno in parte, di legami di gruppo definiti in termini di nazionalità, etnia, comunità e varie altre forme. Quali sono le differenze che conseguono dal fatto che un individuo è nel mio gruppo, contrapposto ad un altro gruppo?".

Riflessioni sul tema della solidarietà divergono oggi molti calzanti, 
La duplice questione che credo conosciamo tutti riguarda da un lato l'atteggiamento politico dilagante sull'"aiutiamoli a casa loro", dall'altro le recenti accuse alle Ong che contribuiscono ai salvataggi in mare dei migranti di essere se non conniventi, almeno vicini all'attività degli scafisti. 
Questo tipo di comunicazione, avvallata da molti, è assai grave e colpisce particolarmente perché si va a toccare, criticare e denigrare, l'area della solidarietà e dell'aiuto umanitario, atteggiamento nuovo e pericoloso per lo sdoganamento di temi e significati che può portare.

Che senso ha, a livello psicologico, attaccare la solidarietà? E quale senso collettivo negare aiuto e accoglienza perché "non possiamo permetterci di salvare vite"?

Tralasciando le questioni specifiche che rendono il tema migrazione un punto fondamentale per le agende politiche moderne (spesso il punto sul quale si può perdere o vincere le elezioni) ciò che colpisce dal punto di vista psicologico sono l'estremo ricorso a un pensiero categorizzante da un lato, e il sentimento di minaccia e aggressività collettiva che si respira su questi temi dall'altro. Su questo entrano in gioco sicuramente  molte variabili, qui ne vorrei prendere in considerazione tre.

1. La categorizzazione sociale, cioè il processo che sta alla base della creazione di stereotipi con i quali attribuiamo caratteristiche comuni a tutti gli individui che fanno parte di un gruppo.
Quelli di Henry Tajfel sono fra gli studi più importanti della psicologia sociale, perché hanno fornito spiegazioni fondamentali su come ci comportiamo quando siamo in un gruppo: ad esempio, tendiamo ad attribuire all'ingroup tutte le caratteristiche positive, mentre quelle negative le mettiamo addosso all'outgroup ("sono brutti, puzzano, sono maleducati" ecc). Se abbiamo delle risorse da suddividere, preferiamo sbilanciarci a favore dell'ingroup. Pensiamo l'outgroup composto da persone più o meno tutte uguali.

C'è da dire che la categorizzazione sociale funziona "di gruppo in gruppo", non è fissa: questo fenomeno psichico dà ragione al ritornello "io contro di te, io e te contro mio fratello, io te e mio fratello contro mio cugino, noi contro il vicino" e così via. Ad oggi, sembra che funzioni bene questo messaggio di "noi italiani" contro i migranti, perché il migrante è un outgroup sufficientemente indefinito, ma allo stesso tempo conosciuto, è "l'uomo nero" che ruba le risorse (i bambini, il lavoro, le case popolari..). 
Anche senza volerlo, in questa divisione fra "noi" e "loro", entriamo dentro a questa macrocategorizzazione che ci fa semplificare il problema "migrazione" fino all'osso fino a che il problema non esiste più e ci sono solo "loro" e la loro "invasione".

2. Il "razzismo del bianco povero". Sempre in termini di risorse, è stato dimostrato che è la prossimità psicologica dell'outgropu che fa aumentare fenomeni di razzismo. Le differenze sono quindi quasi sempre su base sociale, non culturale. Se Barack Obama chiedesse asilo politico qui da noi, nessuno direbbe "oh no, adesso Barack Obama viene a rubarci il lavoro!" perché percepiamo Obama molto distante da noi in termini sociali. 
Per quanto possa sembrare "retrò", il razzismo è quindi anche una questione classista. 
Scriveva Robert Castel "il risentimento, in quanto risposta sociale al malessere sociale, si indirizza verso i gruppi più vicini" ad opera di persone esse stesse deprivate e in concorrenza con altri gruppi.
La deprivazione relativa è quella teoria di psicologia sociale che spiega come gli individui diventano scontenti e aggressivi quando percepiscono l'esistenza di una discrepanza fra lo standard di vita di cui godono e quello di cui credono di dovere godere: tradotto nella nostra realtà, la vita precrisi ha abituato la popolazione a standard medio alti che dopo la crisi non sono stati più accessibili, causando un senso collettivo di deprivazione e frustrazione, che più facilmente trova il suo capro espiatorio nelle fasce migranti, nei poveri, nelle fasce più deboli della popolazione mondiale.
Al perché questo malcontento si indirizzi verso i più prossimi, piuttosto che verso i più ricchi, o verso i responsabili della deprivazione, la psicologia sociale non ha dato ancora risposta certa.

3. Frustrazione e aggressività.
Sppiamo che il conflitto fra gruppi è tanto più probabile quanto più alta è la frustrazione che consegue alla deprivazione. La frustrazione, di per sé, non è sufficiente a sfociare in aggressività, ma associata ad altri elementi negativi (uno stato collettivo di disagio, un clima d'odio generalizzato, la mancanza di politiche sociali..) è probabile che si esprima attraverso rabbia e aggressioni. Questo in parte può spiegare la rabbia e "l'oceano borderline" dilagante a livello sociale che si respira.
Anni prima della creazione dei social network, Zamperini scriveva: "il vocabolario che alimenta i mass media, la televisione, i quotidiani, serve come volano per immettere nell'immaginario miti che costruiscono muri simbolici nei rapporti umani". 
Oggi la maggior parte del vocabolario che passa sui social rispetto al tema migranti è carico di aggressività; dall'altro lato, si assiste sempre di più ad una incapacità sociale di gestire la rabbia, che viene canalizzata e buttata fuori in maniera esplosiva. 
D'altronde, società molto individualiste mettono a rischio il valore naturalmente protettivo delle reti sociali, e forse anche all'interno di questo quadro possiamo sentire quanto, dentro una società di singoli, sia minacciosa l'immagine di una comunità che accoglie in maniera organizzata. La crisi sociale è infatti talmente estesa da aver messo in dubbio anche il valore umanitario dei salvataggi ad opera delle Ong che lavorano nel Mediterraneo.
Su questo, ancora una volta, l'insicurezza fa coppia con la mancanza di risorse: e così l'oceano borderline dilaga i confini della personalità individuale diventando una questione sociale, quella di una comunità che non trova più mezze misure, che ha un pensiero unicamente dicotomico: bene/male, bianco/nero, giusto/sbagliato. 

Questi tre elementi, lungi dal voler spiegare da soli il tema collettivo, sono comunque tre aspetti sistemici sui quali gli psicologi potrebbero essere chiamati ad intervenire, prima che questo malessere sociale si allarghi ancora di più.
La psicologia ci insegna che ciascuno può aiutare a far cessare o, meglio, prevenire, eventi sociali disastrosi, implementando un sentimento di solidarietà sociale: che non è non un atteggiamento da buoni samaritani, ma il presupposto essenziale per una convivenza pacifica. Tutto questo, ovviamente, se riusciamo a mettere l'essere umano e la sua tutela prima di ogni altra cosa.

Come scriveva Zamperini: "Un'informazione mirata, fondata su un adeguato quadro concettuale di analisi, può innescare la consapevolezza di ciò che sta accadendo, alimentando un'azione tempestiva, sempre che le orecchie cui giungono le notizie siano disposte ad un ascolto attento dei primi segnali di vittimizzazione.
Un fenomeno assai raro quando generalmente prevalgono gli interessi interni di bottega e la tutela delle persone è asservita a logiche politiche ed economiche: dopotutto, chi muore"fuori casa" non è percepito come un "nostro" morto".

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