giovedì 20 aprile 2017

Ritorno al futuro.

Riflessione sui potenziali orizzonti della psicoterapia sistemico relazionale.

Al congresso SIPPR Giovani organizzato a Milano nel 2014, al quale parteciparono molti under quaranta della nostra società con interessanti interventi e spunti di riflessione, una cosa che mi colpì molto fu il gran numero di interventi fondati sul ricorso alle tecniche; molti dei giovani presenti si confrontarono infatti su aggiornamenti delle vecchie o nuove tecniche da applicare in psicoterapia. La domanda che allora mi venne in mente fu “perché?”, e con alcuni colleghi provammo a rispondere per scritto attraverso un breve articolo per Terapia Familiare e uno per la newsletter interna al nostro Centro:
“I giovani, si sa, cercano sicurezze, e cosa può metterci più al sicuro di un protocollo? E poi viviamo in un contesto dove impera l’idea che la tecnica ci salverà”. E’ il governo “tecnico” che tira fuori i paesi dai guai; l’Europa ci propone regole tecniche come risposta a una crisi; sui giornali leggiamo nei giornali che il futuro è dei lavori “tecnici”... “Insomma, come ci insegnano i colleghi della Psicologia Sociale, è nei momenti critici che i gruppi richiedono l’intervento salvifico di leader tecnici a discapito di quelli socio-emozionali! Dall’altro lato, l’approccio sistemico-relazionale non ha alla base una singola teoria, ma è figlio dell’incontro di molteplici e differenti approcci teorici. Forse la richiesta di tecniche è anche una ricerca identitaria dei giovani terapeuti, che interrogandosi sui contesti di intervento si chiedono anche “cosa vuol dire ESSERE sistemici?” (Albertini, Mattei, Rontini 2014).

Non può però essere il progresso tecnico che fa procedere un paradigma, non può essere che le ad oggi si possa apportare solo questo al dibattito sistemico relazionale.
Eppure anche Bertrando sottolinea come la differenziazione per tecniche, orientamenti e idee ha caratterizzato negli ultimi anni il composito mondo della psicoterapia sistemico relazionale. Nel 1998, scriveva:

 "La storia delle terapie familiari è una storia discontinua, che procede per salti. A partire dalla sua nascita negli anni cinquanta, sono costantemente emersi orientamenti nuovi. Circa a ogni decennio, qualcuno di essi ha preso il centro della scena, portando in secondo piano i precedenti. Ogni volta, i sostenitori del nuovo hanno scomodato Thomas Kuhn per parlare di “cambiamento di paradigma”. Ci sono diversi motivi per questo stato di cose, non tutti di stretta pertinenza teorica. Il più importante è probabilmente la necessità, per ogni nuovo modello, di differenziarsi quanto più possibile dagli altri, quella che Framo (1996) chiama the battle of brand names, “la battaglia dei marchi depositati”. C’è, in questo, una grande differenza fra terapeuti della famiglia e psicoanalisti. Gli analisti, che concepiscono la propria disciplina come continuità, insistono a citare Freud a cent’anni dai suoi primi articoli. I terapeuti della famiglia, che vedono la propria disciplina come costantemente rifondata, hanno difficoltà a citare articoli più vecchi di dieci-quindici anni. Sta di fatto che, nell’evoluzione delle terapie familiari, la continuità è rintracciabile soltanto al prezzo di qualche sforzo di attenzione.” (Bertrando 1998)

Il futuro della psicoterapia sistemico relazionale è quindi quello di balcanizzarsi in decine di paradigmi diversi, che hanno in comune solo il richiamo (più o meno esplicito) ai sistemi e alla cibernetica?
Gianmarco Manfrida nel 2009 scriveva “Il modello terapeutico familiare-sistemico-relazionale è riconosciuto tra quelli fondamentali in Italia e in molti paesi ma.. non sono sicuro che il popolo dei terapeuti relazionali si sia effettivamente costituito in una sicura identità. Dice Juan Luis Linares che, inizialmente, eravamo uniti da una posizione alternativa, iconoclasta, di innovatori del settore terapeutico e della salute mentale, ma che basarsi su una identità rivoluzionaria dopo quaranta anni, con capelli bianchi pancette e acciacchi vari, ci rende preoccupatamente simili agli irriducibili nostalgici dell’ideologia comunista, che però almeno la loro rivoluzione l’hanno portata avanti più di noi…”.
I giovani terapeuti sistemici appaiono abbastanza disorientati, e rispondo al disorientamento in maniera anche costruttiva. Le nuove generazioni stanno apportando contributi teorici incentrati alla scoperta, implementazione prova e conferma di nuove tecniche. Sembra però mancare fra i “nuovi orizzonti” uno spazio di riflessione sul paradigma, e sui nuovi linguaggi.
Siamo proprio sicuri che le tecniche porteranno il nostro paradigma a nuove fasi di crescita? Che lo renderanno adattabile alle nuove sfide che i cambiamenti socio politici e culturali ci mettono di fronte? Sinceramente non credo, e prendo a prestito le parole dell’artista Enrico Castellani:

"Io non credo alla tecnica come lievito per nuove idee, come provocatrice di cose nuove: sarà sempre subordinata dalla volontà dell'artista. Quando avessi in mente un progetto che fosse una invenzione di linguaggio, in questo caso troverei anche la tecnica esatta. La tecnica viene automaticamente dopo l'idea, ma come fatto spontaneo: la ricerca della tecnica, per me, è a un livello talmente normale che non vale neanche la pena di parlarne" (Enrico Castellani, in "Autoritratto" di Carla Lonzi, corsivo mio).

E invece negli ultimi anni pare succedere proprio questo all’interno del nostro modello: “Non tutti hanno la fortuna di assistere così direttamente alla nascita di una moda e io non sono in grado di precisare qual siano le maestà che le impongono in terapia relazionale. Ricordo, però, molte ricette che hanno spopolato in certi periodi: il capretto espiatorio, la lingua sistemica, l’uso dello spazio, l’estetica del cambiamento, la prescrizione in salsa paradossale, invariabile o di potere, lo sforzo epistemologico, al differenza di genere, la co-cottura (pardon, costruzione) della realtà, l’individualità del terapeuta, il joining, la circolarità” (Manfrida, 2004).

Il paradigma sistemico relazionale ci insegna che non c’è futuro senza un passato, senza una storia. I nuovi orizzonti quindi non possono non prendere spunto dalle radici, da quelle più antiche, per recuperare ciò che ha reso l’approccio sistemico così differente e speciale rispetto a tutti gli altri paradigmi.

 “Ad inventare mode e sviluppare linguaggi esoterici noi terapeuti relazionali siamo sempre stati anche troppo bravi, al punto di vivere in una allegra anarchia in cui tante scuole e sottoscuole parlano idiomi e dialetti non sempre del tutto comprensibili; se abbiamo peccato, non è stato nel senso di una volgarizzazione e perdita di specificità all’americana, ma in quello della chiusura e, peggio, della scelta della instabilità di idee per sfuggire alla banalizzazione” (Manfrida, 2004).

Il rischio di adottare idee instabili per sottolineare la specificità di tecniche e teorie di cui parla Gianmarco Manfrida mi sembra del resto quello più “in linea” con la società moderna, che chiede soluzioni rapide a problemi complessi e aumenta l’incertezza personale, culturale e sociale. Dall’altro lato, una risposta a questa precarietà incentrata su aspetti esclusivamente tecnici rischia di rendere ancora più instabili le idee di base, e quindi aumentare l’angoscia che guida chi cerca risposte, ad esempio nella psicoterapia.

Cosa recuperare quindi, che ci dia maggiore stabilità e che possa illuminare il nostro futuro? Cosa, al di là delle differenze, rende le persone riunite in questa stanza “simili”?

Forse per prima cosa si dovrebbe partire dalle due parole alle quali difficilmente rinunciamo, che sono “relazione” e “sistema”.
L’idea di relazione, oltre a impedire la separazione fra individuo e contesto, ci permette di guardare allo stesso tempo al contesto come un sistema di relazioni più ampio di quello interpersonale. Il modello ecologico proposto da Urie Brofenbrenner chiama il  microsistema quello composto dai rapporti interpersonali diretti; il mesosistema è quello che definisce i rapporti fra diversi microsistemi (ad esempio la relazione fra sistema-famiglia e sistema-scuola). Inoltre, viene teorizzato un esositema, un sistema a cui l’individuo non partecipa direttamente ma che influisce su di lui (ad esempio per i figli,l’insieme delle relazioni nell’ufficio della madre), ed un macrosistema di culture e organizzazioni più ampie, credenze, norme politiche  ideologie.

Il ricorso alle tecniche di cui parlavamo appartiene ad un intervento a livello di microsistema. Ma quello che si può osservare è che l’intervento nel microsistema rischia di diventare l’unico intervento, una modalità terapeutica che ci differenzia da altri approcci solo per i linguaggi utilizzati e le tecniche (appunto), e non per una visione teorica differente alla base. Perché, per partire, non recuperare la ricchezza della complessità dei sistemi ricordandoci che “occuparsi solo di famiglia è arbitrario e i primi teorici dei sistemi lo sanno benissimo: i sistemi umani in cui ci muoviamo sono virtualmente infiniti”? (Bertrando Toffanetti).
Chiuderci nel nostro microsistema può essere sicuramente più rincuorante, può aprirci spazi di mercato individuali anche appetitosi, ma sicuramente  amplia quella sensazione di “rivoluzione fallita” di cui alcuni autori all’interno del nostro paradigma hanno fatto riferimento (Manfrida, Andolfi, Linares..).

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