La psicoterapia narrativa applicata ai casi di psicosi

In una interessante rassegna France e Uhlin (2006), partendo dalla considerazione del rinnovato interesse
scarsità di ricerche basate su approcci narrativi, sottolineano le grandi potenzialità di interventi di questo genere sia rispetto alla valutazione sia per il trattamento.
Gli autori hanno classificato i lavori dividendoli tra quelli centrati sul contenuto e sulla forma narrativa di storie da un punto di vista individuale e quelli centrati sul contenuto e sulla forma narrativa di storie costruite socialmente. Altri studi, basati sull’analisi qualitativa, hanno indagato le storie dei pazienti e quelle dei familiari rispetto allo sviluppo del disturbo psicotico (Barker et al., 2001); o hanno approfondito la struttura narrativa delle storie dei caregivers di pazienti psicotici rispetto alla malattia mentale (Stern et al., 1999).
nei trattamenti per le psicosi ed evidenziando la
L’intervento terapeutico come materiale di analisi qualitativa ha già consentito risultati interessanti, per quanto riguarda la ricerca sul metodo narrativo applicato a casi di psicosi (Holma e Aaltonen 1997, 1998). Secondo questi autori, infatti, nelle psicosi acute esiste un tentativo di ricerca di senso: ciò nonostante, alcune esperienze psicotiche vengono vissute ad uno stadio pre-narrativo, senza una spiegazione, e possono venire espresse dai pazienti solo attraverso un linguaggio metaforico. La comprensione di queste espressioni metaforiche permette a chi ascolta attentamente di condividere la sensazione di individui come “esseri nel tempo” (Meitinger, 1989). Inoltre l’identità personale stessa ha delle fondamenta narrative, che nelle psicosi acute sono compromesse o non abbastanza coerenti (Holma e Aaltonen, 1995); queste basi sono garantite da un continuo interscambio con i familiari e la società, che è stato analizzato con tecniche qualitative in diverse fasi dello sviluppo di una psicosi, corrispondenti a una progressiva perdita di senso (Barker et al., 2001).
Appare evidente l’importanza dell’approccio narrativo per aiutare i pazienti a “ri-scrivere le proprie vite” (White e Epston, 1990; White, 1995). Anche secondo Ricoeur (1991), l’approccio narrativo all’interno delle psicoterapie implica che il terapeuta costruisca delle storie alternative che ancora non sono state narrate: la vita è infatti un semplice fenomeno biologico finché non viene interpretata attraverso una narrazione.
Non basta però una semplice narrazione affinché l’intervento sia realmente terapeutico. È necessario che le storie alternative che possono emergere con l’aiuto del terapeuta abbiano delle caratteristiche che le rendano capaci di produrre un cambiamento. I sociologi P. Berger e T. Luckmann (1966) mettono la conversazione umana, socialmente appresa, a fondamento della nostra illusoria sensazione di stabilità e controllabilità del mondo, costruita su continue e inconsce conferme reciproche di una condivisa banale quotidianità. La realtà banale condivisa garantisce una identità personale e una prevedibilità del futuro al paziente e alle persone che costituiscono la sua struttura sociale di riferimento, ma al prezzo di tenere in ombra nei sottomondi sociologici alternative alle routine di tutti i giorni e alla attribuzione e assunzione di ruoli relazionali rigidi e talora patogenetici. Secondo il modello delle Realtà Condivise (Manfrida, 1998), nelle narrazioni dei pazienti, sommerse in un mare di banalità confirmatorie, compaiono a tratti, in modo incongruo, mascherato e sorprendente, delle discrepanze, squarci di racconti alternativi provenienti dai sottomondi sociologici, sfere di dati e di significati anch’essi socialmente condivisi e confermati, ma minoritari e relegati nell’ ombra della consapevolezza.
Costruite intorno a queste discrepanze identificate dal terapeuta, le storie terapeutiche devono essere:
- PLAUSIBILI, cioè condivisibili sia dal cliente che da altre persone significative, in modo da consentire di costruire una struttura sociale di conferma della nuova storia, scaturita da un sottomondo sociologico che si sostituirà al mondo della vita quotidiana precedentemente dominante e che viene rivelato dalle discrepanze nel racconto fatto al terapeuta;
- CONVINCENTI, cioè promosse e sostenute dal terapeuta con tecniche atte a sovvertire sul piano logico e su quello emotivo le precedenti opinioni del cliente e delle sue persone di riferimento;
- ESTETICAMENTE VALIDE, tali da coinvolgere le persone, rendendone più varia ed emozionante e meno restrittivamente banale la vita quotidiana.
Le narrazioni che si sviluppano in terapia hanno un inizio, uno sviluppo, una conclusione: partono dall’ascolto critico, attento alle discrepanze, del racconto banale dei pazienti, a cui segue la proposta di una storia alternativa plausibile, accettabile e confermabile dal paziente e dalla sua struttura sociale di riferimento. E’ la PLAUSIBILITA’ che consente di proporre il brogliaccio della nuova storia e di definire il contratto che autorizza a lavorarci sopra; gli aspetti PERSUASIVI fanno da ponte, rinforzando sul piano logico ma anche emotivo lo sviluppo della nuova storia; questa viene coronata infine sul piano ESTETICO dal coinvolgimento paritario e dall’alleanza coi pazienti allo scopo di affrontare le sfide e realizzare insieme l’impresa proposta dalla nuova storia sviluppata in terapia.
E’ in via di pubblicazione nella rivista “connessioni” un lavoro svolto presso il CSAPR (Prato) nel 2011 di analisi qualitativa dei processi terapeuti di pazienti psicotici portati avanti con tecniche narrative.
Il nostro lavoro di analisi qualitativa conferma quanto emerge in letteratura, cioè l’importanza di strutturare una narrativa per dare senso e coerenza alla storia e ai sintomi dei pazienti e l’ utilità del metodo narrativo per intervenire in contesti familiari dove sono presenti sintomi psicotici, che non siano né in fase florida né cronicizzata. Il nostro lavoro conferma inoltre che, quando si utilizzano metodologie terapeutiche narrative, è fondamentale lavorare sul tempo: la terapia narrativa permette infatti di dare ai singoli eventi una dimensione temporale univoca condivisa, inducendo così una ristrutturazione di identità del paziente psicotico attraverso il recupero di due dimensioni fondamentali per l’identità personale quali la narrazione e il tempo. Abbiamo potuto notare come i terapeuti in queste situazioni di lavoro con situazioni psicotiche scandissero più del consueto l’impiego di una tecnica o di uno stile di conduzione particolare a seconda del momento della terapia. Questa osservazione ha colpito noi per primi, visto che tale dato non era venuto in evidenza così nettamente quando si erano analizzate con lo stesso metodo terapie con patologie differenti: potremmo ipotizzare che gli stessi terapeuti nei casi di situazioni psicotiche attuino i loro interventi con più chiarezza e maggior definizione di quanto non facciano con sintomatologie di altra natura.
Lungi da noi voler dare facili ricette o soluzioni: non ci azzarderemmo mai a dire “la terapia con famiglie psicotiche va fatta suddividendo la consulenza in tre parti, e dedicando la parte centrale al recupero della storia” e via dicendo. Ciò nonostante, poiché si parla di narrazione e proprio perché sappiamo che anche le narrazioni più condivise, come le fiabe, al di là di aspetti culturali e contestuali, hanno strutture di riferimento che le rendono simili (Propp, 1928), abbiamo sentito la necessità di proporre una riflessione su come creiamo narrazioni terapeutiche, e su cosa abbiamo di simile noi terapeuti che ci unisce al di là dei differenti stili o dei differenti modelli utilizzati.